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In Italia semplificare è troppo complicato

In Italia semplificare è troppo complicato

Si attende a giorni il nuovo decreto Semplificazioni. E non è una bella notizia. Non perché non ci sia bisogno di semplificazioni, anzi, ma perché da non più di dieci mesi (luglio 2020) ne risulta in vigore un altro, partorito dal Governo Conte bis. Evidentemente con scarsi effetti, visto che se ne invoca un altro.  Sacrosanto lo sforzo del nuovo Governo Draghi, ragionevole l’appello alla necessità di semplificare le norme per rendere praticabili i progetti del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e di resilienza), ma di cattivo auspicio che ogni anno si debba predisporre un defoliante di norme e disposizioni.

Un effetto napalm sulle leggi vigenti venne rappresentato, anche plasticamente, dal famoso rogo di Roberto Calderoli, nel marzo 2010, quando l’allora ministro per la Semplificazione (rieccola) annunciava l’abrogazione di 375mila (sic!) leggi e regolamenti. L’anno prima, in verità, lo stesso Calderoli dopo un decreto “taglia leggi” dovette produrre una norma “salva leggi”: nella foga aveva cancellato la legge con cui veniva istituita la Corte dei conti. Difficile dire dove sia stato l’errore.

Sempre Calderoli si era premurato di far approvare una legge (n.69 del 18 giugno 2009) in cui un articolo, intitolato «Chiarezza dei testi normativi», imponeva che, quando si cambia o si sostituisce una legge, sarebbe obbligatorio indicare «espressamente» che cosa viene cambiato o sostituito. E che quando in una legge c’è un «rinvio ad altre norme contenute in disposizioni legislative», si debba anche indicare «in forma integrale, o in forma sintetica e di chiara comprensione» il testo oppure «la materia alla quale le disposizioni fanno riferimento»

Peccato che ancora più chiaramente, una ventina d’anni prima, la legge n.400 del 23 agosto 1988 avesse già introdotto una norma, mai cancellata – quindi vigente già ai tempi di Calderoli, e ancora oggi – secondo la quale il Parlamento sarebbe vincolato a redigere le leggi in modo leggibile e a riordinarle, in ciascun settore, con un Testo Unico, almeno ogni sette anni. Appunto, “sarebbe vincolato”. Condizionale d’obbligo. Semplificazione auspicabile, ma mai realizzata.

La lotta contro il Leviatano della complicazione rischia di essere persa all’origine. Quando si chiede al Parlamento di scrivere una norma contro la complessità legislativa, sembra di chiedere al malato di prescrivere la propria medicina. Possibile?

L’esercizio è stato avviato fin dall’inizio della nostra storia repubblicana. Dal 1951 al 1953 toccò a Roberto Lucifredi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel Governo De Gasperi numero 7, la delega alla “riforma burocratica”. Stesso incarico nei Governi Pella, Fanfani 1 e Scelba.

Semplificazione e riforma della Pubblica Amministrazione si trovano nell’obiettivo di quasi tutti i Governi repubblicani. Di certo, di fronte al tornante della storia che ci propone il dopo-Covid, e di fronte alla necessità di prepararci a spendere al meglio possibile quella piccola grande montagna di denaro – 248 miliardi di euro nei prossimi sei anni – non è inutile rilanciare l’una e l’altra. Magari imparando dai fallimenti del passato. Magari ricordando Ennio Flaiano. Nel saggio di Claudio de Carolis (“Flaiano e la Pubblica Amministrazione”, Rea, 2010) si citava una delle frasi salaci dell’autore: «Gli presentano un progetto per lo smaltimento della burocrazia. Ringrazia vivamente. Deplora l’assenza del modello H. Conclude che passerà il progetto, per un sollecito esame, all’ufficio competente, che sta creando».

La stessa fantasia di Flaiano concepì un racconto, nel 1969 – “Dei Ladri e dei Timbri” – che iniziava così: “Dopo la calata dei Goti, dei Visigoti, dei Vandali, degli Unni e dei Cimbri, la più rovinosa per l’Italia fu la calata dei Timbri. Erano costoro barbari di ceppo incerto, alcuni dicono autoctoni, dall’aspetto dimesso e famelico, che ispiravano più pietà che terrore”. Invece di assediare le città, vi si introducevano “offrendo servizi inutili che poi venivano ritenuti indispensabili”. Ci vorrebbe un decreto di sfratto per gli eredi dei Timbri. Ovviamente timbrato da loro.

Fonte: Libero Economia