Da anni esistono classifiche internazionali e nazionali per segnalare le aziende “top employer”, quelle nelle quali i giovani vorrebbero prestare la loro attività per le condizioni di lavoro che vengono offerte, i benefit, i piani di carriera, gli investimenti in formazione e sviluppo, l’attenzione alla crescita professionale e personale dei dipendenti. La Pubblica Amministrazione (Pa) italiana dovrebbe puntare a questo, a diventare una “top employer” per attirare talenti e risorse al servizio del Paese.
Lo sforzo che sta compiendo il ministro Renato Brunetta è rivolto a questo obiettivo. La legge di conversione del cosiddetto decreto Covid che contiene le norme sui nuovi concorsi per l’accesso alla pubblica amministrazione è entrata in vigore. “Abbiamo approvato il decreto per il capitale umano della Pa, come rafforzare i tecnici, i funzionari, i dirigenti, gli ingegneri, i burocrati che dovranno attuare il piano nazionale di ripresa e resilienza”, ha detto il ministro, sottolineando che si tratta di “una ventata di modernità, di novità di rafforzamento della nostra pubblica amministrazione“.
Tutto vero. Qualcosa è cambiato. Ora dobbiamo dare tempo ai cittadini di accorgersene. Infatti, a tutt’oggi il 70% degli italiani tra i 25 e i 35 anni dichiara di non voler lavorare nella Pa. Il dato emerge dall’ultima indagine (“La Pa vista dai giovani”) che è stata elaborata il mese scorso da un sondaggio di Proger Index Research. Solo il 20% del campione si mostra interessato a prendere in considerazione un’occupazione nella Pa. Ma le motivazioni sono disarmanti. Poco meno del 60% degli intervistati sceglierebbe la Pa solo perché “entrare nella Pubblica Amministrazione vuol dire avere un lavoro sicuro”. Motivazione comprensibile, soprattutto in questi tempi di fragilità e di incertezza, ma certo non è la spinta più forte per acquisire risorse umane impegnate nel “purpose” aziendale, come si direbbe nel sistema privato.
Già, forse perché questa proposta di valore manca nell’offerta di lavoro nel Pubblico? Di fatto poco più di un giovane su quattro, tra quelli che si disporrebbero a lavorare nella Pa, ritiene che l’occupazione nel Pubblico possa “offrire un percorso di carriera interessante”. Marginale la “vocazione” del civil servant: meno del 5% degli intervistati si mostra interessato a un lavoro nel Pubblico per motivi di “impegno a favore della collettività”. Inutile stupirsi dopo questi anni di attacco a testa bassa contro le Istituzioni. L’anti-politica produce i suoi frutti. D’altro canto, a politica e Istituzioni tocca la prima mossa per invertire il percorso di fiducia oggi pressoché azzerato.
La madre di tutte le riforme, si sa, è quella della Pubblica Amministrazione (Pa). Dall’efficienza della burocrazia dipenderà in buona parte la capacità di spesa di quella piccola grande montagna di denaro che arriverà sul Paese, se riusciremo a realizzare il Piano nazionale di ripresa e di resilienza. Ma da dove si comincia? Si dovrebbe cominciare dai giovani. Secondo il policy paper “La semplificazione amministrativa – Come migliorare il rapporto tra PA e imprese”, curato da Deloitte, emerge che solo il 2,2% dei collaboratori nella Pa è giovane, contro il 30% della Pubblica Amministrazione tedesca e il circa 21% di quella francese.
Ancora più dettagliata l’analisi di Carlo Mochi Sismondi, presidente del Forum Pubblica Amministrazione, che alla fine dello scorso anno sosteneva che – dati alla mano – nella Pa italiana i trentenni sono meno dell’uno per cento. L’età media dei dipendenti pubblici è 51 anni, la più alta dell’area Ocse, con punte di 54 anni nei ministeri.
Il tema dei giovani nella Pa è emerso con frequenza nel corso dei confronti serrati condotti dalla task force per la preparazione del Pnrr, promossa a Palazzo Vidoni dal ministro Brunetta, alla quale ho avuto l’onore di partecipare. Anche per questo mi pare utile condividere il rapporto di Proger Index Research, nel quale si mostrano ancora forti i pregiudizi (o i giudizi meditati?) che – sempre secondo il campione di 25-35 anni – vogliono la Pa preda delle raccomandazioni: più del 35% dei giovani intervistati ritiene che nella Pa “si entra solo per raccomandazione”. Poco più del 26% è altrettanto tranchant nel ritenere che il lavoro nel Pubblico è “un ambito di lavoro che non premia il merito”.
L’obiettivo di una grande operazione di nuove assunzioni è condizione necessaria ma non sufficiente per affrontare l’attesa riforma. Si dovrebbe offrire ai giovani motivazioni che oggi, loro, paiono non intravvedere. Per il 26% degli intervistati il “merito non abita qui”. La riforma della Pa deve perseguire l’obiettivo di una Pa più efficiente, meno asservita ai partiti (o ai sindacati) e più di servizio al Paese; ma per una Pa più efficiente serve anche una nuova cultura di solidarietà e coesione, che possa riproporre lo Stato come un soggetto contro cui non è sensato essere antagonisti e detrattori, ma partecipi del suo cambiamento e del suo futuro.
Fonte: L’Espansione