Non si tratta di ledere l’autonomia regionale, ma di assicurare obiettivi certi a tutto il Paese, da Bolzano a Palermo. E le politiche attive del lavoro affidate ai Centri per l’impiego – regionalizzati – non partono. Sembra proprio per colpa delle Regioni. E’ lecito pensare a una sostanziale modifica delle competenze nella gestione di quei 4,4 miliardi di euro previsti dal Pnrr per dare benzina alle politiche attive?
L’ho già suggerito, non per il mio passato di presidente Inps, ma credo che un ente nazionale – perché non l’Inps che ha tutte le informazioni dei beneficiari delle politiche passive? – possa gestire meglio l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, invece dell’attuale regionalizzazione. E’ successo – è stato raccontato – il paradosso di opportunità di lavoro manifestatesi nel Lazio senza che i centri per l’impiego della Campania ne avessero contezza. E viceversa. Il dramma è che in questo modo restano senza lavoro i disoccupati e senza lavoratori le imprese che avrebbero modo di crescere.
La scorsa settimana la Conferenza Stato-Regioni aveva rimandato l’approvazione dell’articolato proposto dal Governo, per la realizzazione del programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori), che dovrebbe essere il cardine dello sviluppo di quella attesissima e rimandatissima riforma delle politiche attive del lavoro. Si litigava per la ripartizione dei primi 880 milioni disponibili nella prima tranche delle risorse del Pnrr. L’accordo alla fine è arrivato. Ma si è perso tempo.
I motivi della “lite” sul riparto non erano banali e sono stati in parte superati. La ripartizione delle risorse dipendeva dal conteggio elaborato su cinque indicatori: numero dei percettori di Naspi, di reddito di cittadinanza (Rdc), disoccupati, occupati e lavoratori in cassa integrazione. C’è chi ha eccepito che i percettori di reddito di cittadinanza (peraltro una politica passiva e assistenzialistica, utilizzata in modi assai diversi sul territorio nazionale) fossero già conteggiati tra i disoccupati, quindi le Regioni con maggiori percettori di Rdc finirebbero per avere più risorse per gestire le politiche attive e paradossalmente ad averne più bisogno sarebbero invece quelle con più disoccupati “attivi” cioè non adagiati sulla percezione del Rdc. E’ stato trovato alla fine un punto di equilibrio, fra le Regioni e il Governo.
Ma la cosa che emerge più chiara da questo ennesimo ping-pong è che la regionalizzazione si conferma una iattura per la progettualità di nuovo lavoro. Una conferma di inefficienza. I Centri per l’impiego non riescono nemmeno ad assumere i propri nuovi dipendenti. Le Regioni accampano le scuse più diverse – le norme Covid, la burocrazia del mattone per aprire nuove sedi, persino la riforma della Pubblica Amministrazione – ma di fatto solo l’8% degli 11.600 nuovi addetti per i 552 centri per l’impiego italiani è stato assunto per affiancare gli 8 mila esistenti.
Chi non riesce ad assumere i propri dipendenti come può favorire l’assunzione di altri lavoratori? Ed effettivamente la forza lavoro avviata dai Centri per l’impiego in Italia continua a veleggiare su percentuali risibili, tra il 2 e il 4%.
Ai Centri per l’impiego toccherebbe un dinamismo sconosciuto: la base territoriale dovrebbe favorire, questo sì, la nascita di esperienze pilota, come ha ricordato pochi giorni fa Dario Di Vico, nell’incrocio tra programmi scolastici ed esigenze delle imprese. Non si deve quindi buttare il bimbo con l’acqua sporca, la forte base territoriale dovrebbe e potrebbe favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, a condizione che ci sia un forte coordinamento nazionale – e qui l’Anpal ha dimostrato debolezza – e una quantità di informazioni adeguate a incrociare politiche passive e attive. C’è chi nel passato ha criticato il gigantismo dell’Inps (che vanta forte presenza sul territorio e coordinamento nazionale). Credo che si dovrebbe affrontare il problema con pragmatismo: il modello Inps potrebbe favorire lo sviluppo delle politiche attive del lavoro? Io credo di sì.