Sarà l’instabilità crescente in vista dell’elezione del nuovo Capo dello Stato, sarà la fibrillazione dei partiti vicini al varo della Legge di Bilancio (e conseguente assalto alla diligenza), ma crescono i dubbi sulla capacità dello Stato italiano di spendere i 240 miliardi di euro messi a disposizione dall’Unione europea. Non basta un Piano per la ripresa (Pnrr) ben scritto e inoltrato per tempo alle autorità di Bruxelles. Inviato il pacchetto al 30 aprile, dallo scorso mese di maggio è iniziata la sfida: produrre progetti e rendicontarne la realizzazione. Altrimenti non se ne fa nulla.
I timori si erano manifestati ancor prima del varo del Pnrr, poi la scadenza rispettata dal Governo Draghi e l’autorevolezza del premier sembravano aver riposto nel cassetto i dubbi. L’esperienza accumulata nelle altre pianificazioni di spesa di fondi europei insegna che c’è poco da fidarsi.
Pochi giorni fa sono stati diffusi i dati di utilizzo dei cosiddetti fondi strutturali europei, cioè quelle risorse che – ben prima dello straordinario piano post-Covid – l’Europa mette a disposizione per progetti regionali dei diversi Stati aderenti all’Unione. L’Italia si è confermata fanalino di coda. La spesa certificata a Bruxelles, al 31 ottobre scorso, era ferma al 48,2% contro il 57,6% della media Ue. Il rischio è di veder sfumare la possibilità di utilizzare 32 miliardi di euro per progetti di sviluppo, per i quali Bruxelles ha già detto sì, alla condizione che si sappia dimostrare di saperli spendere e rendicontare.
Con molte differenze regionali – l’eccellenza del Piemonte e l’inattesa buona performance della Puglia, a fronte della più prevedibile carenza delle altre regioni del Sud Italia – in generale la situazione italiana sarebbe da migliorare ovunque, dal momento che 32 miliardi mai spesi vanno utilizzati nei prossimi 26 mesi, e se l’obiettivo non sarà centrato i finanziamenti verranno cancellati per “disimpegno automatico”.
E’ più di un campanello di allarme per il metodo e per la capacità delle amministrazioni pubbliche italiane (in questo caso sul banco degli imputati sono le Regioni, e non è la prima volta). I fondi strutturali europei sono cinque: il Fondo europeo di sviluppo regionale, il Fondo sociale europeo, il Fondo di coesione, il Fondo europeo per lo sviluppo rurale e Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca. Come tutti gli strumenti del bilancio comunitario, i fondi strutturali vengono stanziati in settennati. Le poco onorevoli cifre di bilancio riguardano il consuntivo del settennato 2014-2020, che finirà di essere rendicontato alla fine del 2023.
A differenza di questi Fondi strutturali, quelli del Pnrr sono irripetibili. Un’occasione unica, che non può essere riproposta. E questo accentua il senso di inquietudine e l’accresciuta sensazione di sfiducia.
Una sfiducia che serpeggia sempre più robusta, anche nell’opinione di molti decisori e opinion maker. I sondaggi, si sa, non sono la scienza, ma rappresentano un sentimento: nel corso della presentazione dell’ultimo Rapporto “Welfare Italia” (prodotto da Unipol in collaborazione con The European House Ambrosetti) una platea autorevole di esperti, opinionisti, imprenditori, manager, uomini delle istituzioni, collegati in streaming con l’evento hanno espresso forti dubbi sulla capacità di spesa dei fondi previsti dal Pnrr. Alla domanda “crede che l’Italia saprà sfruttare adeguatamente le opportunità offerte dal Pnrr?” l’81% degli intervistati ha risposto no, o almeno ni (cioè “solo parzialmente” oppure “non sufficientemente”). I “sì” convinti solo il 17% del totale delle risposte.
Intendiamoci, è solo il sentimento di una “community”. Una comunità autorevole, ma solo un caso. Ma la sfiducia torna a serpeggiare. Gli europei di calcio sono lontani, siamo tornati a fare fatica contro l’Irlanda del Nord e a sbagliare i rigori decisivi. Il calcio non è l’unica metafora possibile, ma se si passa ai fatti si vede che in Campania solo il 43% delle risorse del Fondo europeo di sviluppo regionale sono state certificate. C’è ancora molto da fare. Anche per Draghi.
Fonte: Libero Economia