Il benessere psicologico è sempre più spesso indicato come una priorità, dopo la pandemia. Ma la scuola deve preoccuparsi solo del benessere psicologico dei ragazzi? Il “disagio” giovanile è un dato di fatto. Come potrebbe essere altrimenti: due anni di reclusione domestica, di relazioni ridotte al computer o allo smartphone, di attività fisica inesistente, di didattica a distanza (Dad). Eppure, la scuola verrebbe meno al suo compito se si concentrasse solo sul “disagio”.
Il servizio pubblico che la scuola deve assicurare ai giovani di oggi (e alle loro famiglie) deve venire prima di tutto. Quanto più il mondo di oggi mette al centro il capitale umano – nella vita delle imprese, nelle comunità, nei territori – tanto più la scuola deve svolgere un ruolo insostituibile nella formazione e nell’istruzione dei cittadini di domani. Ben oltre il disagio avvertito e certificato.
La Dad ha fatto male alla scuola e agli studenti. L’ultimo Rapporto Indire – “Impatto della pandemia sulle pratiche didattiche e organizzative delle scuole italiane nell’Anno Scolastico 2020/21″ – descrive gli impatti negativi della Dad, che a fronte di un miglioramento della competenza digitale degli studenti, ha contribuito solo a peggiorare le performance, su tutti i fronti. E’ stato rilevato un netto peggioramento nella capacità di lavorare in gruppo e nella propensione alla relazione. Per la scuola secondaria di secondo grado, i dati sono più allarmanti: il 41,2% degli studenti ha avuto problemi di socializzazione e il 26,1% ha avuto difficoltà a lavorare individualmente.
L’impatto sui livelli di apprendimento non è stato incoraggiante: i dati più allarmanti riguardano la difficoltà degli studenti a prestare attenzione online: nella scuola primaria il 60,7% dei docenti asserisce che gli studenti hanno difficoltà a concentrarsi, nella scuola secondaria di primo grado è il 73,4%, per arrivare al 75,9% degli studenti della scuola secondaria di secondo grado.
Questo quadro è destinato a trattenere l’Italia sul fondo di ogni classifica internazionale su scuola, formazione e università. Le eccellenze ci sono, ma sono poche. La stragrande maggioranza dei report certifica una inadeguatezza della scuola italiana in relazione alla sua “mission”. Per troppo tempo, forse, si è prestata troppa attenzione alle esigenze (legittime, ma non prioritarie) del personale – docente e non docente – e poca agli studenti e alle loro famiglie. Al più ci si è posti il problema psicologico degli uni e sociologico delle altre.
Anche le ultime polemiche sulla seconda prova scritta della maturità non ha fatto onore al sistema scolastico. Non si tratta di negoziare, ma scegliere e condividere. C’è una deriva sindacale che non fa bene alla scuola e a chi la frequenta. Così come non si tratta di blandire l’emotività che si manifesta – comprensibilmente – di fronte ai fatti di cronaca: la morte di due giovani (uno in alternanza scuola-lavoro, l’altro in stage) non può essere motivo per mettere in dubbio l’incontro necessario tra percorso scolastico e inserimento nel mondo del lavoro. Reclamare più sicurezza vale per tutti. Per gli operai di 50 anni e per gli studenti di 20. Alla scuola spetta un impegno ulteriore e specifico: mettere al centro le esigenze formative dei giovani, tenendo conto delle loro fragilità e del loro disagio, che sono una condizione da affrontare, non il problema da risolvere.
Il coro di dissensi verso i Ptco, i percorsi trasversali per le competenze e l’orientamento (previsti dall’alternanza scuola lavoro) sembra essere stato sufficiente per escluderne la valutazione in sede di esame di maturità. Una scelta accondiscendente verso chi protesta, che non sempre è un buon segnale per chi rappresenta le Istituzioni e il servizio pubblico.
Il valore delle giovani generazioni non sta nella capacità di blandirne gli orientamenti, ma nella volontà di coinvolgerne capacità ed energie per costruire il futuro del Paese, che è fatto di competenze, di merito, di studio e di lavoro. Lavoro in sicurezza, sì, ma tanto lavoro.
Fonte: Libero Economia