Come scrive Sabino Cassese nel suo ultimo libro: “La situazione della giustizia in Italia è peculiare. Da un lato si assiste a una dilatazione del ruolo dei giudici, dall’altro a una crescente inefficacia del sistema giudiziario”. Due fenomeni che non rassicurano cittadini e imprese, sia quando ricorrono all’amministrazione della giustizia, sia quando da essa sono raggiunti.
Di certo si ha la sensazione che le regole che valgono per i comuni cittadini non valgano per chi indossa o ha indossato una toga. L’ultimo caso, in ordine di tempo, potrebbe essere anche il meno eclatante, sia perché introduce una prassi che – se estesa – potrebbe rasserenare molti indagati, sia perché coinvolge un magistrato di chiara fama.
Parlo di Francesco Greco, ex procuratore capo di Milano e tanti anni fa, forse uno dei più equilibrati magistrati del pool “mani pulite”. Il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, lo ha nominato consigliere alla legalità del Comune. Fin qui tutto bene? Sì e no. Confesso che quando l’amministrazione pubblica, di un Comune o dello Stato, insegue etichette e attribuisce funzioni “straordinarie” crea qualche perplessità. Non è la prima volta. Ignazio Marino, sempre a Roma, nominò assessore alla legalità un altro magistrato, Alfonso Sabella. Come è finita lo sappiamo. Che bisogno c’è di delegare (o affidare) la legalità, che dovrebbe pervadere tutta l’amministrazione pubblica?
Un’azienda privata non credo che nominerebbe mai un “consulente alla legalità”, si doterebbe di manager preparati sui temi della legalità, a seconda delle attività svolte, o si affiderebbe a qualche controllore della compliance, o a un risk manager.
Il termine “consulente alla legalità” sa molto di barocco e contemporaneamente di scudo mediatico. Ma poi, perché un magistrato? C’è una prassi che si sta consolidando, con cui i magistrati, con porte girevoli, escono dalla funzione del loro Ordine, per poi rientrarvi dopo aver assunto incarichi pubblici, spesso concettualmente incompatibili, anche se formalmente non illeciti.
Nel caso specifico Francesco Greco è incappato in un’indagine. L’ex procuratore capo di Milano è indagato a Brescia per abuso in atti d’ufficio in relazione alla gestione dei fascicoli per l’inchiesta sulla banca Monte dei Paschi di Siena, per i quali erano già indagati, sempre a Brescia, i pm di Milano Stefano Civardi, Giordano Baggio e Maurizio Clerici. L’ipotesi della procura di Brescia è che non sarebbero stati svolti tutti gli accertamenti necessari nell’inchiesta sui dirigenti della banca, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rispettivamente ex presidente ed ex ad dell’istituto.
Per Greco non è la prima volta, venne indagato anche per una storia complicata, nata dalle dichiarazioni dell’avvocato Amara, che va sotto il nome di caso “loggia Ungheria”. Intendiamoci, essere indagato non dovrebbe essere, in sé, motivo di disonore. L’argomento lo conosco bene. Mi hanno fatto studiare. Si è innocenti fino al terzo grado di giudizio. Sì, a parole. Ma la cosa curiosa è che se a essere indagato è un non-magistrato il riflesso condizionato dell’opinione pubblica e della politica giustizialista è solo uno: “E’ meglio che faccia un passo indietro. E’ meglio che si dimetta da ogni incarico pubblico. E’ meglio che si faccia da parte”. Giustizia asimmetrica?
Se c’è una indagine ad aleggiare sulle spalle di un magistrato, le regole sembrano cambiare, come d’incanto. La politica si fa silenziosa, anzi, promuove la presunzione di innocenza, riscoprendo i valori della giustizia positiva, non quella che fa sentenze a colpi d verbali istruttori, di intercettazioni malintese, di dimissioni pretese. Tutti i magistrati indagati restano serenamente al loro posto. Se a essere indagato è un cittadino, magari inviso a qualche parte politica e mediatica che partecipa più intensamente al mainstream, vale la regola opposta. Primo: si tolga di mezzo. Poi vedremo. E quando sarà riconosciuto estraneo ai fatti, pazienza, avrà il tempo di rifarsi vita e reputazione. Forse.
Fonte: Libero Economia