Papa Francesco ha tutte le ragioni per considerare una follia la corsa agli armamenti. Guarda alla storia in un orizzonte che solo il sarcasmo di Stalin a Yalta riusciva a rendere incomprensibile: “Ma quante divisioni militari ha il Papa?” si chiedeva il leader sovietico durante le riunioni della Conferenza di pace, rivolto a chi gli suggeriva di tenere in considerazione l’opinione di Pio XII. Appunto, non ne aveva allora, non ne ha oggi, non per questo viene meno la sua autorità. Ma per chi nella storia è immerso con uno sguardo meno prospettico il bilancio militare non può essere trascurabile. Meno che meno può essere piegato a piccoli interessi di consenso. Agli statisti si chiede coerenza, e se si cambia idea è dovere dirlo.
Il riferimento è a chi oggi, in Italia – Papa a parte – si straccia le vesti davanti alla spesa militare invocata al 2% del Pil. Chi governa il Paese lo dice e lo scrive ininterrottamente almeno dal 2014, in accordo con quanto stabilito dal Defence Investment Pledge, un documento adottato dai leader della Nato (Italia compresa) proprio otto anni fa, che stabiliva di fissare il budget per la difesa al 2% del Pil entro un decennio. La crisi ucraina ha solo suggerito di non rimandare oltre questo impegno. E di questo si è fatto portavoce Mario Draghi, che non ha cambiato di una virgola gli impegni assunti dai suoi predecessori. La smemoratezza di qualche ex presidente del Consiglio e di qualche ministro (ed ex ministro) non fa onore a chi vuole fare troppe parti in commedia.
Sarebbe utile e opportuno discutere del come, più che del quanto. Se si passa dall’attuale 1,6% sul Pil al 2% la differenza non è così clamorosa, ma sarebbe bene approfittarne per aiutare a fissare obiettivi chiari e condividerli con trasparenza. I 38 miliardi (più o meno l’equivalente del 2% indicato) devono finire solo in acquisto di armamenti? Nel bilancio militare, tanto per capirci, ci sono anche le spese per carabinieri e forestali. La sicurezza del Paese non è solo un obiettivo di armonizzazione europea, ma è una questione che riguarda la quotidianità della vita dei nostri cittadini.
Ha senso dotarsi di missili Stinger, lasciando le caserme nelle condizioni in cui sono oggi? Ha senso attrezzarsi con i carri Blindo Centauro2 e abbandonare le tenenze dei carabinieri in luoghi dove non è possibile trovare una sedia decente dove sedersi, in attesa di presentare una denuncia? Le spese militari riguardano anche i luoghi in cui esercitano la loro attività quotidiana le risorse umane in divisa. E in questo senso una caserma dignitosa vale una scuola dignitosa.
Avrebbe anche senso assicurare una adeguata trasparenza per le spese militari. Forse gli automatismi di carriera drenano qualche risorsa in eccesso? Il dubbio, lecito, nasce dal fatto che l’Italia conta 480 generali in servizio attivo, che vuol dire un generale ogni 378 militari. Forse troppe stellette a fronte dei soldati in attività. Negli Stati Uniti il rapporto è di un generale ogni 1500 militari; in Germania uno ogni mille. Se ai generali in servizio attivo si aggiungono quelli “in ausiliaria” si sfiorano le 600 unità. A tutti viene assicurata una contribuzione previdenziale speciale, diversa e più generosa di quella di qualunque altro dipendente pubblico. Nel 2012 (credo che sia l’ultimo dato disponibile!) l’incremento pensionistico era valutato in circa 350 milioni di euro. Il costo di una fregata, che rischia di tradursi in una fregatura per il bilancio previdenziale oltre che militare.
Non solo. A prescindere dalle stellette assegnate sul campo, a livello retributivo si diventa generali (e colonnelli) per anzianità. Cioè lo stipendio di un generale di brigata si ottiene dopo 25 anni di servizio, a prescindere.
Insomma, prima che scandalizzarsi della correzione al 2% del Pil della spesa militare, sarebbe il caso di approfittarne per assicurare trasparenza e per definire qualche utile riforma. I tempi di crisi – pandemia e guerra russo-ucraina sono due tempeste perfette – sono ideali per mettere mano a riforme per troppo tempo accantonate.
Fonte: Libero Economia