Trenta milioni di tonnellate in un anno in tutta Italia, circa 500 chilogrammi a testa. Tanti sono i rifiuti prodotti nel Bel Paese. Un problema? Forse un’opportunità. Visto che nella gestione dei rifiuti molti Paesi hanno visto una occasione per produrre energia elettrica e acqua calda, con gli impianti di incenerimento di seconda e terza generazione, i cosiddetti termovalorizzatori.
In Europa ce ne sono circa 500 attivi, spesso inseriti in contesti urbani, come nel caso di Vienna, Parigi, Londra, Copenaghen, Montecarlo, Amburgo e Amsterdam. In Italia ce ne sono solo una quarantina, l’ultimo realizzato otto anni fa, a Parma, gestito da una delle maggiori multi-utilities, Iren. Poi la politica – e la burocrazia per conseguenza – si è distinta, come spesso purtroppo accade, in battaglie di retroguardia. Quando era vicepremier Luigi Di Maio si fece ricordare per aver bollato l’ipotesi di allargare il parco dei termovalorizzatori con una dichiarazione che non prevedeva contraddittorio: “Roba vintage”. Peccato che in Europa non sia così. E peccato che Chicco Testa – che di queste cose se ne intende – avesse reclamato la necessità di almeno altri dieci termovalorizzatori in Italia, magari al Centro e al Sud, dove si producono e si esportano rifiuti e dove – al netto di qualche caso d’eccellenza, come quello di Acerra – questi impianti sono una rarità.
Riaprire il “caso” rifiuti-energia elettrica non è una questione peregrina, nell’orizzonte della crisi energetica che ci affligge e ci affliggerà. Potrebbe determinarsi un circolo virtuoso capace di offrire ai territori e alle comunità locali un’occasione di smaltimento controllato dei rifiuti, accanto al riciclo, e una opportunità di generazione di energia alternativa, oltre alla possibilità di diffondere il teleriscaldamento.
Tutte cose ovvie e note da anni, a Brescia per esempio, ma che un ambientalismo poco informato e poco attento all’evoluzione tecnologica ha etichettato come produzione di diossina e polveri sottili. Non è così.
L’inceneritore di Brescia, il termovalorizzatore urbano probabilmente più grande d’Italia – su cui A2A sta investendo 100 milioni di euro per farlo più grande – attivo dal 1998 produce energia elettrica per il fabbisogno di 200 mila famiglie, fornendo 60 mila appartamenti raggiunti attraverso una “rete di teleriscaldamento di oltre 630 chilometri. Recupera ogni anno energia termica ed elettrica da circa 700 mila tonnellate di rifiuti non riciclabili e ha consentito di evitare 13 discariche da 1 milione di tonnellate di rifiuti.
L’esempio di Brescia, di Acerra, di Parma resta confinato tra le “robe vintage” secondo troppi politici. E continuiamo a esportare circa 3 milioni di tonnellate di rifiuti speciali, di cui 1 milione di rifiuti pericolosi, e circa mezzo milione di tonnellate di rifiuti urbani: un fenomeno in crescita, una assurdità ambientale ed economica. Negli ultimi tempi poi i prezzi di conferimento all’estero sono aumentati, peraltro verso realtà industriali che in Italia non si riescono nemmeno a realizzare, ubicate in Paesi ritenuti da molti modello di sostenibilità ecologica, come Germania e Svezia.
La sostenibilità è una parola che rischia spesso di essere solo un argomento da salotto. L’emergenza energetica è invece una drammatica realtà. Così come la gestione del ciclo dei rifiuti (con le nuove criticità degli imballaggi, vista la crescita dell’e-commerce), da sottrarre a un’economia criminale o almeno opaca. La raccolta differenziata e il riciclo sono una tappa necessaria, ma lo smaltimento che porta all’incenerimento – e quindi alla valorizzazione energetica della combustione – resta un’opportunità da non perdere. La condizione è, anche in questo caso, la rimozione delle abitudini al no, e una valorizzazione delle capacità di gestione virtuosa a livello territoriale. Il chilometro zero potrebbe non essere solo l’obiettivo di una filiera di qualità agroindustriale e commerciale, ma un’occasione per un nuovo sviluppo energetico alternativo, nell’orizzonte di una tenuta maggiore di imprese e famiglie nelle comunità locali.
Fonte: Libero Economia