L’Italia è un Paese mai pacificato. Tra i tanti conflitti, periodicamente emerge la battaglia generazionale, come se il futuro fosse solo di una parte e non il frutto di una storia comune. Giovani contro vecchi. E dove meglio rilevare la faglia che separa gli uni dagli altri? Nel lavoro, in particolare nell’occupazione della Pubblica Amministrazione (PA). Dai dati dell’ultimo Conto annuale del personale pubblico che il ministero dell’Economia ha diffuso in questi giorni, più che rilevare il lieve aumento (+0,18%, cioè 6000 unità in più) dei dipendenti nelle PA, molti hanno creduto opportuno segnalarne l’invecchiamento.
Il dato è oggettivo. I dipendenti pubblici italiani sono 3,2 milioni, con un’età media di 50,7 anni, di cui il 16,9% over 60. In Italia poco meno della metà dei dipendenti pubblici dell’amministrazione centrale hanno un’età pari o superiore a 50 anni, mentre in Francia e Gran Bretagna, a esempio, tale quota è al 30%. Di più. In Gran Bretagna circa il 5% dei lavoratori della PA ha meno di 25 anni e il 20% ha un’età compresa tra 25 e 34 anni. In Italia, i lavoratori del pubblico impiego sotto i 35 anni sono solo il 10,3%.
Sarebbe opportuno ricordare che se la popolazione italiana è la più “vecchia” al mondo (insieme a quella giapponese) finisce per riverberare la caratteristica in ogni dimensione sociale. Perché stupirsi dell’età media alta dei dipendenti pubblici italiani quando il 22,8% della popolazione è over 65? Si tratta di circa 14 milioni di persone, la cui metà è composta da over 75. Rispetto a 10 anni fa, gli over 65 sono cresciuti di circa 1,8 milioni. A fronte di un calo degli under 15 di quasi 400.000 unità.
Tutti ci auguriamo che possano nascere più bambini – l’unico modo per abbassare l’età media senza dover vedere ridotta l’aspettativa di vita – ma nel frattempo siamo sicuri che il ricambio generazionale possa essere favorito da un turnover accelerato? Le lezioni del passato remoto e recente dovrebbero farci dire altro. Il capitolo indecoroso dei baby pensionati negli anni Ottanta ha lasciato una ferita ancora aperta nei conti pubblici: paghiamo ancora circa 4 miliardi l’anno per la scelta irresponsabile di creare uno scivolo colossale per l’uscita di dipendenti tra 40 e 50 anni d’età. Più di recente con l’avventura di “quota 100” abbiamo assistito al trionfo della demagogia, condita di falsità ideologiche. Non basta accantonare forzatamente un lavoratore meno giovane, per assicurarsi l’assunzione di uno più giovane. Anzi, nei mercati del lavoro più maturi avviene l’esatto contrario: l’occupazione di lungo periodo favorisce l’economia e quindi la creazione di nuovi posti di lavoro.
Le torte che ci piacciono sono quelle con fette più grandi, non con briciole più numerose.
Poi ci sono alcuni settori della PA dove il draconiano impegno a cacciare i più anziani, ha finito per generare disfunzioni gravi. Ormai c’è una carenza cronica di molte professionalità amministrative che frenano l’attività in molti enti locali (sono queste le amministrazioni più colpite dal blocco del turnover imposto dal Governo Monti e solo recentemente e parzialmente rimosso, anche per lo zelo positivo del ministro Brunetta). Ancora peggio nella sanità. Ci siamo accorti di aver pensionato troppi medici e non abbiamo più la garanzia di presidi ospedalieri efficaci, a partire dal Pronto soccorso, per finire alle attività specialistiche. In questo caso si ricorre all’integrazione privata: molti preferiscono scegliere il medico con qualche capello grigio in più, piuttosto che scegliere il neolaureato in attesa di solide esperienze. C’è da stupirsi?
Fonte: Libero Economia