Nemmeno il Pnrr è più forte della magistratura. Se avessimo avuto dei dubbi li ha fugati, pochi giorni fa, il Tar Puglia. Il nodo ferroviario di Bari non s’ha da fare. Ci aveva provato il Governo Berlusconi, con la legge Obiettivo, nel 2001. All’epoca furono i nidi degli uccelli fratini a bloccare l’opera. Dopo vent’anni, sempre un’istanza ambientalista – questa volta motivata dalla difesa di un parco archeologico e da un piccolo bosco di carrubi e ulivi, con qualche cespuglio di orchidee – è stata giudicata meritevole di ascolto. Poco importa che la Regione Puglia e la Soprintendenza non avessero giudicato degni di tutela né le piante minacciate, né i reperti archeologici.
Ma anche sulla vasca di colmata del porto di Brindisi, l’opera più importante degli ultimi decenni per lo sviluppo dello scalo salentino, pende la stessa spada di Damocle che incombe sul nodo ferroviario di Bari. Un ricorso presentato dalle associazioni ambientaliste rischia infatti di bloccare tutto.
Siamo alle solite. L’Italia è immobile. Basta una magistratura – amministrativa in questo caso, civile in molti altri – sollecitata da una minoranza rumorosa e tutto si ferma. Capita anche, raramente, il contrario. Ci sono casi in cui la Procura minaccia indagini – è successo a Roma per gli autobus che si incendiano – e d’incanto le amministrazioni trovano motivi per agire.
Che sia il trasporto pubblico locale, la concorrenza incompiuta sulle spiagge o per i taxi, le grandi infrastrutture; tutto si mostra saldamente nelle mani di piccole o grandi lobby capaci di interdizione perfetta. Una vocazione alla difesa è sempre stata una caratteristica dell’Italia anche nel gioco del calcio, ma quello che si è consolidato nel tempo è un ruolo arbitrale che si è fatto giocatore. Trent’anni fa la stagione di “mani pulite” consegnò il Paese nelle mani della magistratura. L’ossessione della prevenzione contro fenomeni corruttivi ha portato nel tempo a costruire distorsioni giuridiche dove organismi della magistratura di controllo (il caso dell’Anac) sono diventati strumenti di impedimento allo svolgimento stesso di gare e bandi pubblici.
Una giustizia incapace di giudicare (la domanda di giustizia è ampiamente inevasa nel nostro Paese) si è attribuita un ruolo politico. Come ricorda Sabino Cassese in un suo recente libello “lo stato fallimentare della giustizia italiana non è tutta colpa dei magistrati. E’ il Parlamento che legifera continuamente in materia di giustizia. E’ il Parlamento che moltiplica le figure di reato, criminalizzando anche la politica e quindi lasciando libero il campo alle Procure di sindacarla”.
La moltiplicazione delle leggi e delle norme è sintomo di debolezza della politica. Non c’è assunzione di responsabilità che non abbia una fattispecie normativa che la giustifichi. E come un boomerang questo approccio rassicurante alimenta l’insicurezza di chi non sa decidere.
Il soprassalto di decisionismo che ci eravamo illusi di vedere nella compilazione del Pnrr si è sgonfiato non appena si è arrivato al dunque. E’ rimasta una lunga serie di impegni e di progetti, dotati di finanziamento, ma incapaci di essere realizzati. La facile profezia dell’inconcludenza si è realizzata con il sostegno della fabbrica dei veti, ai quali le magistrature danno voce e titolo. Se “mani pulite” è la madre di tutte le storie di magistratura politica e politicante, la riforma del titolo V della Costituzione è stata all’origine di buona parte dell’immobilismo di un Paese frammentato in una linea di comando flebile e soffocata. Questo Governo avrebbe ancora il tempo prima del voto, per confezionare in Parlamento una riforma capace di costruire decisioni e riforme, a partire dalla revisione del Titolo V.
Fonte: Libero Economia