C’è da giurare che la lotta all’evasione fiscale sarà un argomento obbligatorio per il programma elettorale di tutti i partiti in lizza. Automaticamente quando si parla di evasione fiscale scatta lo sguardo in tralice verso il commerciante che gestisce una doppia contabilità, o per l’artigiano che ci chiede il pagamento in contanti. Un riflesso pavloviano che ci fa immaginare che la gran parte di quella montagna di miliardi – tra i 100 e i 200 miliardi, a seconda delle stime – che mancano alla contabilità nazionale sia sottratta da elettori tradizionalmente indicati tra la constituency del centro-destra.
Poi capita di leggere – pochi giorni fa, con piccolissimo spazio dedicato da parte dei media tradizionali e online – che in Italia ci sarebbero ancora 3,2 milioni di lavoratori in nero. Una realtà illuminata solo per puntare il dito sui rischi connessi alla sicurezza, sul rinnovato schiavismo cui si sottopongono non solo immigrati, ma indistintamente anche molti giovani e meno giovani italiani.
In termini assoluti è il Nord l’area del Paese con il maggior numero di lavoratori in nero, pari a 1.281.900. Tuttavia, la classifica cambia se si considera l’incidenza del lavoro irregolare sul totale dell’occupazione: in questo caso l’area del Paese con maggiore incidenza del lavoro irregolare è il Mezzogiorno (17,5%), quindi il Centro (13,1%) e Nord (10%); la media nazionale è del 12,6%. A snocciolare le cifre è stato l’Ufficio studi della Cgia di Mestre.
L’economia sommersa presente in Italia “genera” ben 76,8 miliardi di euro di valore aggiunto, una piaga sociale ed economica che, a livello geografico, presenta differenze molto importanti. In Veneto, ad esempio, con oltre 203mila lavoratori occupati irregolarmente, ha un tasso dell’8,8%, mentre l’incidenza del valore aggiunto prodotto è pari al 3,5% per cento, la percentuale più bassa del Paese. Le situazioni più critiche si registrano nel Sud: in Calabria, a fronte di “soli” 131.700 lavoratori irregolari, il tasso di irregolarità è del 21,5% e l’incidenza del sommerso sul totale regionale ammonta al 9,2% (in termini assoluti 2,7 miliardi di euro). Segue la Campania, con 352.700 non regolari.
“Siamo propensi a ritenere – sottolineava la Cgia – che a seguito della crisi pandemica, che ha provocato un forte incremento dei lavoratori in Cig e un impoverimento generale delle fasce sociali più deboli, il numero dei lavoratori irregolari e gli effetti economici siano aumentati in misura importante, soprattutto nelle aree del Paese che tradizionalmente sono più fragili e arretrate economicamente”. Insomma, più nero dove ha colpito la crisi e dove si distribuiscono sussidi. Potremmo riaprire il tormentone del Reddito di cittadinanza, e della distorsione che ha creato nel mercato del lavoro, chiedendo un controllo serrato sul lavoro in nero che viene svolto dai percettori di Rdc (o di altri sussidi).
Una decina d’anni fa proposi di accentrare nell’Inps tutte le attività di vigilanza sul lavoro nero, costruendo un unico soggetto amministrativo che mandasse gli ispettori sul territorio, dotati di tecnologia e di supporto organizzativo (e talvolta di difesa personale: i rischi che si assumono gli ispettori quando fanno i controlli meritano tutte le difese del caso). Non se ne fece nulla, le organizzazioni sindacali vollero “difendere” il ruolo dei ministeriali. Di fatto il lavoro nero è rimasto una piaga che sottrae un imponibile di circa 70 miliardi e una contribuzione previdenziale di almeno 20 miliardi di euro.
Un’evasione fiscale e contributiva di cui si parla solo marginalmente, senza fare controlli serrati, senza considerare la necessità di incrociare con rigore i sussidi con le attività sommerse.
Fonte: Libero Economia