Il presidente dell’Istat nei giorni scorsi al Meeting di Rimini ha riprovato a riportare l’attenzione sull’emergenza demografica che affligge l’Italia e ne compromette il futuro. La previsione formulata da Gian Carlo Blangiardo, dati alla mano, è agghiacciante: il nostro Paese rischia di perdere il 32% del Pil entro i prossimi cinquant’anni. Un allarme che potrebbe (dovrebbe?) incidere sul dibattito elettorale. Invano.
Intendiamoci, l’emergenza energetica non può essere messa in secondo piano, così come quella sanitaria (che tuttavia appare oggi, dopo due anni, un po’ meno “emergenza”), o quella che riguarda nel suo complesso il cambiamento climatico cui stiamo assistendo. Ma la gran parte dei problemi di natura economica che restano irrisolti sul tavolo del futuro del Paese dipende dalla variabile demografica.
Non è la prima volta che dall’Istat arrivano circostanziate previsioni funeste. “Al primo giugno di quest’anno i residenti in Italia sono 58,87 milioni, fra dieci anni avremo perso 1,2 milioni di persone. Nel 2070 mancheranno all’appello 11 milioni di persone. Un grande paese deve avere una popolazione numerosa. Oggi siamo al 24esimo posto tra i paesi del mondo, fra 30 anni saremo al 38esimo”, ha spiegato Blangiardo. Che ha tradotto i numeri della demografia in contabilità economica. Le ricadute che la dinamica demografica negativa avrà sull’economia italiana sono presto dette: “Il Pil di oggi è circa sui 1.800 miliardi, nel 2070 avremo qualcosa come 1.200 miliardi, cioè 560 miliardi in meno, ossia un 32% di Pil in meno solo per il cambiamento di carattere demografico”.
Il Pil dipende in larga misura dalla forza lavoro; meno abitanti, meno lavoratori, meno Pil. L’equazione è semplice. E riguarda anche la tenuta del welfare del Paese. A partire dal futuro previdenziale. Lo ha scritto ancora in questi giorni Giuliano Cazzola: “Prima o poi si dovrà prendere atto che i giovani, di cui ci sarebbe bisogno per compensare l’invecchiamento, non esistono perché non sono nati in misura adeguata. Come è possibile allora pretendere di mandare in pensione per i prossimi anni dei sessantenni, appartenenti a generazioni numerose, che percepiranno il loro trattamento per almeno una ventina di anni a spese di una platea di potenziali contribuenti che progressivamente si riduce?”.
Le argomentazioni sono cristalline, ma non spaventano il nostro mondo politico, che si bea dell’assegno unico e universale varato dal Governo Draghi e vigente dal primo gennaio di quest’anno. Intendiamoci, meglio di niente. L’importo riconosciuto sarà graduato in base al valore dell’ISEE, e per i figli fino a 18 anni andrà da 50 euro a 175 euro, somma alla quale bisognerà aggiungere le maggiorazioni spettanti in caso di presenza, ad esempio, di tre figli o per i nuclei familiari in cui ambedue i genitori lavorano.
Una misura da contagocce, a fronte di una emergenza oceanica. Sarà questo il modo per favorire la “generazione” di quei 500mila italiani all’anno che servirebbero per invertire la rotta dell’implosione demografica? Alessandro Rosina ha ricordato che già nel 2005 “the Economist” registrava con sorpresa la noncuranza con cui il Bel Paese accettava una previsione scontata (e rivelatasi più che azzeccata): “Italy’s demographics look terrible”. Se alle famiglie dei nuovi nati si assicurassero 3-4000 euro l’anno si tratterebbe di prevedere una spesa di 2 miliardi l’anno, l’effetto composto sarebbe compensato da un gettito fiscale in grado di generarsi dai consumi di questi nuovi nati.
È solo il caso di rammentare La saggezza di Winston Churchill: “Il politico diventa uomo di Stato quando inizia a pensare alle prossime generazioni invece che alle prossime elezioni”.
Fonte: Libero Economia