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Sono a rischio i 5 miliardi per le politiche attive

Clean sheet: il Governo Draghi finirà il suo mandato (compresa la fase dimissionaria in corso) senza Gol. Ma non è un successo. Zero Gol vuol dire in questo caso che il piano “Garanzia di occupabilità dei lavoratori” (ecco spiegato l’acronimo Gol) non sarà attivo prima della fine dell’anno. E non è detto nemmeno che dicembre sia il mese buono. E infatti c’è il rischio concreto che possano sfumare i 5 miliardi che l’Europa (4,4 miliardi del Pnrr più altri 500 milioni dai Fondi React-Ue) si è impegnata a versare per la tanto attesa riforma dei Centri per l’impiego e per le iniziative di “politica attiva” per il lavoro.

Nella sua fase operativa Gol sarebbe dovuto partire a inizio anno. I ritardi della decretazione a livello nazionale e la complessità del sistema a gestione decentrata hanno fatto sì che, a parte alcune lodevoli eccezioni, ancora oggi ci siano Regioni che neppure sono partite.

L’obiettivo, concordato con l’Ue, è inserire nel programma Gol almeno 300 mila beneficiari (il 10% dei 3 milioni di persone da sostenere con politiche attive da qui al 2025) entro dicembre. In realtà a fine 2022 il Dm attuativo di Gol, con cui è stato fatto il primo riparto di 880 milioni di euro, indica l’ottimistica cifra di 600mila disoccupati “profilati”. Ad oggi (inizio di settembre) sono meno di 100mila.

A fine agosto, più della metà delle Regioni era ancora alle prese solo con i bandi per selezionare gli operatori che poi dovranno partecipare a un altro bando per l’erogazione e il finanziamento della formazione o degli altri servizi per il lavoro dei percorsi previsti dal programma. L’idea di Gol è quella di favorire una collaborazione pubblico-privata, integrando la funzione dei Centri per l’impiego (Cpi) con il contributo di privati, che tuttavia a oggi (il 95% delle “prese in carico” è avvenuta attraverso l’operatore pubblico) sembrano non ritenere adeguata l’offerta.

E il pubblico, ahimé, da anni dà pessime prove di sé quando si tratta di incrociare domanda e offerta di lavoro. Cosa nota e ribadita lo scorso giugno dall’ultimo Rapporto Inapp-Plus, che attribuisce ai Cpi solo il 4,2% di successo. Cioè solo poco più del 4% dei disoccupati che trova lavoro è passato dai Cpi. Fanno meglio le scuole e le università che mediamente riescono a “trovare lavoro” a più del 5% dei giovani che hanno conseguito un titolo di studio. Ancora più performanti le Agenzie per il lavoro private, che riescono a collocare il 6,4% dei nuovi occupati.

Anche senza Gol a perdere sono i cittadini in cerca di nuova occupazione. Va molto meglio a coloro che preferiscono il Reddito di cittadinanza (Rdc). Nei primi tre anni di applicazione (dall’aprile 2019 all’aprile 2022) la misura ha raggiunto 2,2 milioni di nuclei familiari per 4,8 milioni di persone, per un costo totale di quasi 23 miliardi di euro, l’importo medio mensile si attesta sui 577 euro. Le proiezioni più recenti dicono che la spesa è destinata a crescere fino ai 10 miliardi l’anno.

Non dovrebbero essere misure “concorrenti”, ma il disegno malfatto dell’uno e dell’altro programma continua a confondere assistenza e politiche attive per il lavoro. Se per la prima parte il Rdc ha dato qualche risultato (senza cancellare la povertà, beninteso) per l’altra parte ha solo contribuito a scassare il mercato del lavoro, già molto precario e mal governato.

L’emergenza resta da anni. Le Regioni da cui dipendono i Cpi hanno dimostrato di non essere i soggetti migliori per gestire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Abbiamo già suggerito di concentrare tutto nell’Inps, ma negli ultimi anni è prevalsa la volontà di moltiplicare le “agenzie” nazionali, aggiungendo fallimenti, come quello dell’Anpal.

Fonte: Libero Economia