Già sette anni fa “The Economist” dedicava un servizio al nostro Paese, dal titolo che oggi risulta profetico: “Italy’s demographics look terrible”. Ma la politica nostrana, a volte fin troppo attenta a registrare gli umori della stampa britannica, non ha mostrato attenzione. Né allora, né poi. La campagna elettorale appena conclusa ha confermato che l’emergenza demografica in Italia sembra non riguardare l’agenda del Paese, o per lo meno di coloro che lo governeranno.
Il presidente dell’Istat, ad agosto, al Meeting di Rimini aveva provato a riportare l’attenzione alla drammaticità del tema. L’emergenza demografica che affligge l’Italia non è meno grave di quella energetica. È forse solo meno incombente. Di certo ne compromette il futuro. La previsione formulata da Gian Carlo Blangiardo, dati alla mano, è agghiacciante: il nostro Paese rischia di perdere il 32% del Pil entro i prossimi cinquant’anni.
Non è la prima volta che dall’Istat arrivano circostanziate previsioni funeste. “Al primo giugno di quest’anno i residenti in Italia sono 58,87 milioni, fra dieci anni avremo perso 1,2 milioni di persone. Nel 2070 mancheranno all’appello 11 milioni di persone. Un grande paese deve avere una popolazione numerosa. Oggi siamo al 24esimo posto tra i paesi del mondo, fra 30 anni saremo al 38esimo”, ha spiegato Blangiardo. Che ha tradotto i numeri della demografia in contabilità economica. Le ricadute che la dinamica demografica negativa avrà sull’economia italiana sono presto dette: “Il Pil di oggi è circa sui 1.800 miliardi, nel 2070 avremo qualcosa come 1.200 miliardi, cioè 560 miliardi in meno, ossia un 32% di Pil in meno solo per il cambiamento di carattere demografico”.
Alessandro Rosina ha riproposto il drammatico “degiovanimento” del Paese, tutto concentrato a registrare gli effetti di quel piano inclinato che porterà l’Italia ad avere sempre più over 65 e sempre meno under 18. Non è solo un problema sociale.
Il Pil dipende in larga misura dalla forza lavoro; meno abitanti, meno lavoratori, meno Pil. L’equazione è semplice. E riguarda anche la tenuta del welfare del Paese. A partire dal futuro previdenziale. Lo ha scritto qualche settimana fa Giuliano Cazzola: “Prima o poi si dovrà prendere atto che i giovani, di cui ci sarebbe bisogno per compensare l’invecchiamento, non esistono perché non sono nati in misura adeguata. Come è possibile allora pretendere di mandare in pensione per i prossimi anni dei sessantenni, appartenenti a generazioni numerose, che percepiranno il loro trattamento per almeno una ventina di anni a spese di una platea di potenziali contribuenti che progressivamente si riduce?”.
Le argomentazioni sono cristalline, ma non spaventano il nostro mondo politico, che si bea dell’assegno unico e universale varato dal Governo Draghi e vigente dal primo gennaio di quest’anno. Intendiamoci, meglio di niente. L’importo riconosciuto sarà graduato in base al valore dell’ISEE, e per i figli fino a 18 anni andrà da 50 euro a 175 euro, somma alla quale bisognerà aggiungere le maggiorazioni spettanti in caso di presenza, ad esempio, di tre figli o per i nuclei familiari in cui ambedue i genitori lavorano.
Una misura da contagocce, a fronte di una emergenza oceanica. Sarà questo il modo per favorire la “generazione” di quei 500mila italiani all’anno che servirebbero per invertire la rotta dell’implosione demografica? Se alle famiglie dei nuovi nati si assicurassero 3-4000 euro l’anno si tratterebbe di prevedere una spesa di 2 miliardi l’anno, l’effetto composto sarebbe compensato da un gettito fiscale in grado di generarsi dai consumi di questi nuovi nati. Ci vorrebbero statisti, non bastano i politici, rammentando la saggezza di Winston Churchill: “Il politico diventa uomo di Stato quando inizia a pensare alle prossime generazioni invece che alle prossime elezioni”.
Fonte: Espansione