Giuro che non si tratta di nostalgia per il passato. È pur vero che per circa dieci anni la mia vita ha coinciso con quella dell’Inps, ma riparlarne – come ogni tanto mi accade di farlo – non è per il gusto di volgere lo sguardo al tempo che è stato. L’Inps è la più grande Amministrazione pubblica d’Europa. Il polmone del welfare del Paese. Poche migliaia di donne e uomini servono più o meno 40 milioni di cittadini, per le prestazioni più diverse, dalle pensioni alla cassa integrazione, dai bonus bebé all’invalidità civile. Non una macchina perfetta, ma – almeno nei ricordi di quando l’ho lasciata ormai otto anni fa – una macchina efficiente, con tutte le criticità di chi si trova ad avere come clienti due terzi della popolazione italiana.
Per tutti questi motivi, oltre che per quel pizzico di emotivo attaccamento a una grande e bella esperienza di “civil servant”, mi spiace di vedere associato il marchio dell’Istituto alle gesta fraudolente di chi si approfitta di qualche maglia larga per lucrare prestazioni non dovute. Da due anni a questa parte lo stillicidio delle truffe sul reddito di cittadinanza (Rdc) ha associato l’Inps alle indagini delle forze dell’ordine per scovare i “furbetti” che hanno indebitamente incassato il Rdc.
C’è chi ha contato che una ventina di Procure in Italia indagano sulle scandalose erogazioni di prestazioni assistenziali in favore di soggetti che non avevano e non hanno mai avuto titolo per ricevere quelle forme di aiuto. In molti casi l’Inps si è fatta parte attiva e collaborativa nell’individuazione delle truffe. Anche se poi, come abbiamo appreso dalla stampa, l’Avvocatura dell’Istituto ha dissuaso le direzioni regionali dalla costituzione di parte civile nei processi contro i “furbetti”, a meno che le truffe (e i truffatori) non rappresentassero una “oggettiva rilevanza quantitativa o mediatica”. La comunicazione non è stata felice, né nella forma, né nella sostanza, sottraendo l’Inps dal ruolo istituzionale che riveste.
A prescindere dalle responsabilità – da qualcuno invocate e respinte dal vertice dell’Istituto – sul comportamento lasco al momento dell’erogazione della prestazione, la volontà di recuperare denaro e reputazione sembra irrinunciabile. Sul primo versante, quello del denaro (erogato senza adeguati controlli e non inseguito nel suo doveroso recupero) dovrebbe pensarci la Corte dei Conti, che ha magistrati delegati al controllo in ogni Pubblica Amministrazione, per verificare gli eventuali danni erariali e le relative responsabilità.
Sul versante della reputazione credo che il Paese abbia bisogno di non avere dubbi sui comportamenti virtuosi (così come sono nella stragrande maggioranza dei casi) nella “cassaforte delle pensioni”. Molto si è detto e qualcosa si è fatto sull’informazione del proprio conto previdenziale (busta arancione e dintorni). Sarebbe un peccato che la trasparenza sui processi amministrativi venisse offuscata da comportamenti reticenti e omissivi riguardanti una singola prestazione di tanto impatto politico e sociale. Il presidente Tridico si è da sempre intestato la paternità del Rdc. Dalle ultime uscite sembra tuttavia pronto a rieducare il figlio che il Governo Meloni ha fatto sapere di non amare. Forse per poter allungare di un anno la sua permanenza al vertice dell’Istituto.
Quello di cui c’è bisogno non è di un’abiura, ma di una rigorosa cura reputazionale. Per il bene dell’Inps e di tutto il Paese. Specie per quei giovani che continuano a porsi la domanda – soprattutto dopo aver saputo di questi sprechi – “Ma io avrò una pensione?”. I vasi non sono comunicanti, per fortuna. Ma non tutti sono tenuti a saperlo. Per tutte le Amministrazioni pubbliche vale quello che vale per chi fa politica: si deve essere come la moglie di Cesare, al di sopra di ogni possibile (e anche ingiusto) sospetto.
Fonte: Espansione