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Il Milleproroghe di fine anno abitudine del Parlamento

La Corte Costituzionale e per un paio di volte il Presidente della Repubblica negli ultimi dieci anni sono intervenuti per limitare l’uso del decreto Milleproroghe. Eppure, dal 2005 a oggi è diventato un rituale insostituibile per i Governi di sinistra come per quelli di destra, e pure per quelli “tecnici” (Monti e Draghi compresi). Un’abitudine. Probabilmente una cattiva abitudine che pone il Governo ed il  Parlamento – e quindi tra le principali Istituzioni dello Stato – in una condizione di totale asimmetria con i cittadini.

Di fronte alle scadenze – fiscali, contributive, amministrative, di ogni genere – i cittadini sono tenuti a “non sgarrare”, come è ovvio che sia. Ogni ritardo è sanzionato. Con l’invenzione del “decreto Milleproroghe” – e con la sua avventurosa conversione in legge – il Governo e il Parlamento si sono dati (e hanno dato alle Amministrazioni dello Stato) una condizione “regale”, asimmetrica appunto, nei confronti dei cittadini-sudditi. Se una scadenza non è rispettata, se una previsione di legge è sul punto di decadere, se una norma sta per concludere i suoi effetti, invece che rifare un iter parlamentare “normale”, invece che riesaminare contenuto e contesto, beh, basta decretarne la proroga.

L’utilità del decreto è facile da comprendere. In un colpo solo – e con un unico atto dell’Esecutivo prima e del Parlamento dopo – si risolvono parecchi problemi diversi, permettendo di prorogare per legge una serie di termini che altrimenti dovrebbero essere trattati e risolti separatamente. La fatica della democrazia parlamentare viene quindi omessa, esclusa, cauterizzata. In quanto decreto legge, poi, le sue misure entrano subito in vigore, non appena viene approvato dal Consiglio dei ministri. Quest’anno il rito si è rinnovato il 21 dicembre. Potremmo sperare che sia stata l’ultima volta?

Nel 2012 era intervenuta la Corte Costituzionale, annullando alcune disposizioni contenute nel Milleproroghe del 2010 a causa della manifesta “estraneità alla materia e alle finalità del medesimo decreto”. Napolitano provò a tirare le orecchie a Berlusconi e a Monti (nel 2011 e nel 2012) per gli stessi motivi, ma ogni anno (che si trattasse del Governo Renzi o Letta, Conte uno o Conte due), riecco il “decreto Milleproroghe”.

Non si tratta solo di un mostro giuridico e di una contraddizione in termini – la necessità e urgenza è sempre comprovata? – ma di uno sfregio nei confronti dei cittadini. E nei confronti della funzione del Legislatore. Se una norma decade, siamo sicuri che sia necessario prorogarla? Si continua in un errore o si certifica l’inefficienza legislativa? Se si arriva a una scadenza non ci si chiede se sia giusta o ingiusta, la si rispetta. Punto e basta. Ma quello che vale per gli italiani “normali” non vale per gli italiani “rappresentanti” di tutti. Il che è persino peggio: il rappresentante invece che servire il rappresentato, lo irride.

Un esempio – estratto a caso dal cesto di cose diverse dell’ultimo Milleproroghe – riguarda l’utilizzo delle risorse stanziate dalla legge di bilancio 2022 e finite in un apposito fondo di solidarietà presso il ministero dell’interno (10 milioni di euro) per l’erogazione di un contributo nei confronti dei proprietari di unità immobiliari a destinazione residenziale non utilizzabili a causa dell’occupazione abusiva. Ma forse i proprietari di casa avrebbero preferito una norma che liberasse gli immobili, invece che promettere indennizzi. No?

Nemmeno gli auguri si possono prorogare. Si possono rinnovare con un atto volontario e meditato. Da parte mia alla fine di un anno di parole e pensieri condivisi preferisco rifare gli auguri, sempre nuovi e diversi, augurandomi che nel 2023 anche le norme possano essere rinnovate senza l’automatismo cieco e irrispettoso di una proroga.

Fonte: Libero Economia