Il rischio vero è che cominci la caccia al colpevole, prima che ancora si sia consumato il delitto. Intendiamoci, intorno al Pnrr e alle sue risorse disponibili sulla carta, tutto fa pensare che un delitto – tanti soldi che finiranno non spesi – si possa verificare. O addirittura che si stia verificando. Comprensibile mettere le mani avanti, da parte di chi si trova a guidare un treno in corsa del quale non ha deciso né il percorso, né le tappe, né la velocità.
Ma i cittadini italiani forse sono più interessati a vedere qualcosa di buono, piuttosto che sapere che il poco di buono è colpa dei Governi precedenti. Di certo i bilanci di medio periodo sulla realizzazione dei programmi del Pnrr continuano a essere poco ragguardevoli. L’ultima ricognizione è quella della Corte dei Conti, che nella sua relazione semestrale al Parlamento ha messo in fila gli scarsi risultati fin qui conseguiti. Solo il 6% delle risorse a disposizione sono state spese alla fine del 2022. È vero che il bilancio si dovrà fare fra poco meno di quattro anni, nel 2026, ma il tempo passa con poco costrutto.
Se è vero che sono stati contabilizzati lavori per poco più di 20 miliardi di euro, è anche vero che secondo l’analisi dei magistrati contabili solo la metà sono attribuibili effettivamente alle risorse attivate dal Pnrr. Più che la ricerca del capro espiatorio politico sarebbe forse il caso di individuare la distorsione all’origine di tutto ciò. Quale? La polverizzazione della spesa.
Non a caso i ritardi maggiori sono quelli che riguardano la quarantina di miliardi che il Pnrr ha affidato a progetti gestiti dai Comuni. Anche in questo caso il rischio da evitare è una deriva politica. Così come non sembra il caso di caricare sui Governi di centro-sinistra l’unico peso di un Pnrr in ritardo, allo stesso modo non dovrebbe essere lecito difendere l’autonomia comunale, oltre ogni ragionevole limite di efficienza, solo perché l’Anci (l’associazione nazionale dei Comuni d’Italia) è a maggioranza di centro-sinistra.
La distribuzione a pioggia delle risorse è un vecchio e consolidato metodo che resiste dalla prima Repubblica e attraversa la seconda (e la terza?) senza scossoni. Una forma di consociativismo che induce a distribuire un po’ a tutti, per contenere il dissenso. È un metodo che è adeguato alle esigenze di trasformazione profonda (talvolta radicale) imposta dalla transizione energetica, ecologica e sociale in corso? Grandi cambiamenti forse richiedono grandi risorse. Tante piccole spese forse accontentano porzioni di elettorato, ma non creano il “bene comune” del Paese.
Analizzando la spesa consumata fino al 2022 – secondo l’analisi della Corte dei Conti – si ritrova forse una conferma di questo percorso di piccolo cabotaggio inconcludente. Nella Missione 6, dedicata alla Salute, la spesa è praticamente assente (79 milioni su 15,6 miliardi disponibili, quindi lo 0,5% del totale), nella Missione 5 su Inclusione e coesione si arriva a 239 milioni (l’1,2% dei 19,8 miliardi di budget). In controtendenza solo la Missione 3, quella delle «Infrastrutture per la mobilità sostenibile», che arriva al 16,4% grazie agli appalti delle ferrovie. Ecco, dove c’è una grande appaltatore si affaccia l’efficienza.
Forse potrebbe essere questa la chiave di volta per il percorso del 2023 (e dei tre anni a venire, fino al 2026): scegliere di ridurre il numero delle opere, per inseguire “grandi opere”. Modernizzare il Paese è possibile solo con un “salto quantico”, non con ordinari e piccoli balzi di circostanza. Ferrovie e viabilità in generale, Telecomunicazioni e digitalizzazione, emergenza acqua: forse basterebbero questi punti per fare un’agenda capace di concentrare i circa 200 miliardi del Pnrr per cambiare il volto all’Italia e per rendere meno faticosa la vita agli italiani.
Fonte: Libero Economia