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L’Italia opera solo in “deroga”. Così il Pnrr rischia di sfumare

Ora si dirà che è colpa del Covid, della guerra in Ucraina, dell’inflazione, dei rincari delle materie prime. Se non fosse tutto tremendamente serio – e vero – verrebbe alla mente la paradossale performance di John Belushi in “The Blues Brothers”, in cerca di giustificazioni improbabili – fino all’invasione delle cavallette – per spiegare la sua assenza all’altare per il matrimonio sfumato.

Quello che rischia di sfumare, oggi, è il Pnrr. Lo abbiamo già scritto: la frammentazione dei progetti non aiuta, qualche incompetenza dei Comuni aggiunge difficoltà, l’inconcludenza consolidata delle Regioni nello spendere i denari europei completa il quadro negativo. Ma non basta. C’è di più. Di fronte al bollettino delle gare andate deserte è lecito fare una riflessione strutturale.

Secondo la Banca dati dell’Anac (l’Autorità nazionale anticorruzione) da agosto 2022 a marzo 2023, sono state più di 500 le gare senza partecipanti. Poi si aggiungono altre 61 procedure concluse senza esito in seguito a offerte irregolari, inammissibili, non congrue o non appropriate. Si potrebbe dire che è un campione esiguo, di fronte alle oltre 60mila gare bandite in questo periodo. Ma restano pur sempre 1,8 miliardi di euro che rischiano di andare certamente persi a fronte della montagna incerta di risorse disponibili per ora solo sulla carta.

Il paradosso per i cittadini è quasi insostenibile. Di fronte ai mille problemi quotidiani – dalle buche nelle strade alla carenza di asili nido, dalla viabilità congestionata alle infrastrutture da fare o rifare – si continua a ripetere che non ci sono risorse pubbliche. Poi si scopre che non si riescono a spendere 191 miliardi e rotti. Frustrante è dire poco. Cercare il colpevole è lo sport più facile e il più inutile. Basta annunciare l’arruolamento di nuovi assunti nella Pubblica Amministrazione? Basta accusare la burocrazia inefficiente e incapace? Non credo. Temo che ci sia un sistema bloccato e inconcludente. Un assetto istituzionale inadeguato ad assumere decisioni in tempo utile: dai tempi dell’amministrazione della giustizia a quelli della definizione di un appalto.

Il nuovo Codice degli appalti sarà la panacea? Mi auguro di sì, ma temo di no. C’è una capacità di interdizione che è sempre più efficace del percorso di costruzione e proposta. Troppi centri decisionali? Forse. Probabilmente un’architettura istituzionale inadeguata ai tempi normali della vita quotidiana. Quando si decidono le deroghe, d’incanto tutto torna a funzionare: lo abbiamo visto con la costruzione del ponte progettato da Renzo Piano, che ha sostituito il “Morandi” a Genova. Il 14 dicembre del 2018 sono iniziate le demolizioni del viadotto, quattro mesi dopo la tragedia. Nell’agosto del 2020 l’inaugurazione della nuova opera. In piena pandemia. Meno di due anni dal crollo. Meno di un anno e mezzo di lavori.

Si può fare. Ma in deroga a tutte le norme esistenti. Non è un invito alla deregulation totale, ma una riflessione necessaria nei giorni in cui si contabilizzano i soldi che si iniziano a sprecare di fronte alla dote del Pnrr. L’Italia sembra un Paese che accetta di essere condannato all’inazione. Dai tavoli della concertazione permanente ai Tar sospensivi, dalle Soprintendenze alle Belle Arti alle Conferenze di servizio: tutto sembra orientato all’infinito confronto. Poco o nulla sembra essere dedicato all’obiettivo da conseguire, in un tempo congruo con l’obiettivo.

Prevale sempre lo spirito dei Guelfi e dei Ghibellini, che finisce per issare su ogni progetto una bandiera di parte o di partito, esponendola alla gogna della parte avversaria. Un Paese moderno ha bisogno di decidere rapidamente. E ha bisogno soprattutto di essere “Paese di tutti”, anche quando è governato da chi non si è votato.

Fonte: Libero Economia