A molti era sembrata una vera cornucopia, da cui sarebbero dovuti uscire soldi regalati per rimettere in sesto il Paese dopo il Covid (e poi avremmo detto anche dopo la crisi energetica accelerata dalla guerra in Ucraina). Oggi potrebbe somigliare più a un vaso di Pandora, rotto, da cui cominciano a uscire tutti i mali del mondo. O almeno del nostro Bel Paese.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) avrebbe dovuto “unire” l’Italia – almeno per interesse – ma sembra destinato a dividerla, lasciandola bloccata (e indebitata). Come sempre. Cominciamo a ricordare quanti soldi ci sono (teoricamente) a disposizione. Il Pnrr, presentato dall’Italia, prevede investimenti per 191,5 miliardi di euro. Si tratta di 68,9 miliardi a fondo perduto, e di 122,6 miliardi di prestiti. In un caso come nell’altro si tratta di debito: diretto nel secondo caso, indiretto nel primo. Anche i denari a fondo perduto che verranno (forse) dall’Ue dovranno essere rigenerati nel bilancio comunitario dalle risorse dei singoli Paesi dell’Unione. Italia compresa, ovviamente.
Oggi, a tre anni di distanza dal varo del Piano, non stiamo discutendo sulle strategie delle infrastrutture di trasporto e mobilità sostenibile, né di grandi programmi di digitalizzazione delle migliaia di pubbliche amministrazioni centrali e locali, né di un programma di ristrutturazione del patrimonio immobiliare scolastico o sanitario. Stiamo invece verificando se Comuni ed enti locali (chiamati a spendere circa la metà delle risorse del Pnrr) abbiano provveduto alla realizzazione del museo del giocattolo medievale, o allo depolveratura dei libri della biblioteca municipale: cito a caso dallo sterminato elenco di progetti inseriti nel Pnrr, secondo le richieste avanzate dai territori.
Sacrosanti obiettivi delle comunità locali, ma coerenti con gli obiettivi di “ripresa e resilienza”? Non solo. Oltre alla improvvida frammentazione dei progetti c’è una sostanziale difficoltà a realizzarli. Secondo la Banca dati dell’Anac (l’Autorità nazionale anticorruzione) da agosto 2022 a marzo 2023, sono state più di 500 le gare senza partecipanti. E i soldi non si spendono. Il paradosso per i cittadini è quasi insostenibile. Di fronte ai mille problemi quotidiani – dalle buche nelle strade alla carenza di asili nido, dalla viabilità congestionata alle infrastrutture da fare o rifare – si continua a ripetere che non ci sono risorse pubbliche. Poi si scopre che non si riescono a spendere 191 miliardi e rotti. Temo che ci sia un sistema bloccato e inconcludente. Un assetto istituzionale inadeguato ad assumere decisioni in tempo utile: dai tempi dell’amministrazione della giustizia a quelli della definizione di un appalto. Il nuovo Codice degli appalti sarà la panacea? Mi auguro di sì, ma temo di no. C’è una capacità di interdizione che è sempre più ef-ficace del percorso di costruzione e proposta.
Troppi centri decisionali? Forse. Probabilmente un’architettura istituzionale inadeguata ai tempi normali della vita quotidiana. Quando si decidono le deroghe, d’incanto tutto torna a funzionare: lo abbiamo visto con la costruzione del ponte progettato da Renzo Piano, che ha sostituito il “Morandi” a Genova. Il 14 dicembre del 2018 sono iniziate le demolizioni del viadotto, quattro mesi dopo la tragedia. Nell’agosto del 2020 l’inaugurazione della nuova opera. In piena pandemia. Meno di due anni dal crollo. Meno di un anno e mezzo di lavori. Nella sua “normalità” l’Italia sembra un Paese che accetta di essere condannato all’inazione. Dai tavoli della concertazione permanente ai Tar sospensivi, dalle Soprintendenze alle Belle Arti alle Conferenze di servizio: tutto sembra orientato all’infinito confronto. Poco o nulla sembra essere dedicato all’obiettivo da conseguire, nei tempi congrui all’obiettivo da raggiungere, non nell’orizzonte dell’eternità.