Dopo anni di silenzio l’emergenza demografica sta conquistando almeno un posto fisso nelle agende di governo e – forse con meno attenzione – nelle preoccupazioni dell’opinione pubblica. C’è chi imbraccia i dati della denatalità, soprattutto italiana, per riproporre la questione giovanile; c’è chi pragmaticamente individua nella longevità un nuovo fronte di business possibile.
All’ultima edizione del Salone del Risparmio Nicola Palmarini, direttore del National Innovation Center for Ageing del governo inglese, ha suggerito che l’invecchiamento è la migliore opportunità di investimento, ricerca, sviluppo, impresa che l’Italia abbia davanti a sé. “Credo che se investissimo in longevità al pari di moda, design, cibo e arte, avremmo un driver di crescita di Pil che i miei colleghi inglesi si sono presi la briga di calcolare, definendo il cosiddetto “Longevity dividend”. Se entro il 2025 potessimo sostenere le persone di 75 anni e oltre per eguagliare la spesa dei 65-74enni, potremmo aggiungere l’8% all’anno al Pil entro il 2040”.
Dalla silver economy alla longevity economy? Forse. Ed è giusto guardare sempre alle crisi come fonti di possibili opportunità. Ma è chiaro che le criticità sono più facili da misurare e prevedere. Il recente studio dell’ex presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo, con Bankitalia, ha rimesso in riga dei numeri che non possono non preoccupare: nei prossimi 40 anni il Pil italiano rischia di calare del 25% in media, a causa della riduzione della popolazione. Entro il 2061 l’Italia è destinata a perdere circa 10 milioni di abitanti, concentrati nella fascia d’età tra i 15 e i 64 anni.
Nel Mezzogiorno le previsioni più nere: il tasso di natalità è sotto la media nazionale e il Pil è destinato a crollare del 40% entro il 2061. Una previsione spettrale per il futuro del Paese. Una previsione che si è costruita con inappuntabile coerenza nella gestione dei Governi degli ultimi vent’anni, e forse più. Un periodo sufficientemente lungo per raccogliere tutte le forze politiche, perché tutte hanno governato – per poco o per tanto tempo – dimenticando di dare indirizzi forti e controtendenza di fronte a una snobbata crisi demografica.
Per risalire la china servono incentivi fiscali e monetari, ma soprattutto una “rivoluzione culturale” che faccia scegliere – prima che comprendere – l’opportunità di mettere al mondo figli. Lo stesso Blangiardo, che non può essere tacciato di sentimenti di destra, ha ricordato di recente che un grande Paese è fatto anche da una “grande” quantità di abitanti. Denatalità e spopolamento sono nemici di una grande Nazione.
E poi c’è il piccolo e banale incidente della tenuta sociale ed economica tra generazioni. Meno nati, vuol dire meno lavoratori, meno lavoratori vuol dire meno contributi e meno tasse, quindi meno risorse per il welfare del Paese. E in particolare meno capitali per pagare le pensioni: il sistema a ripartizione, si sa, funziona così. Il rischio di implosione non è lontano, purtroppo. Si rincorrono bonus e sussidi, ma ci si dimentica di questa semplice contabilità. C’è da dire che forse il Paese reale ha una consapevolezza maggiore di quella di chi vorrebbe rappresentarlo. Mentre troppi invocano ancora di anticipare il tempo di uscita dal lavoro, sotto la soglia della “riforma Fornero”, un recente sondaggio Swg dice che “l’età media più adeguata per andare in pensione, secondo gli italiani, è 64,7 anni”. Non molto distante dalla soglia attuale. La pensano diversamente i rispondenti francesi (sondaggio OpinionWay) che vorrebbero smettere di lavorare in media a 61,8 anni”. Un realismo, quello italiano, che forse merita una mediazione politica aggiornata e più adegita alla crisi demografica e all’opinione pubblica.
Fonte: Libero Economia