L’ultima a lanciare l’allarme, in ordine di tempo, è stata Confartigianato. Non si trovano lavoratori. Al di fuori della mischia che divide favorevoli e contrari al Reddito di cittadinanza, o senza scendere nella competizione sul salario minimo per legge, i dati certificano ancora una volta che il lavoro in Italia c’è. Mancano i lavoratori.
“In particolare – si legge nel rapporto di Confartigianato – le maggiori difficoltà di reperimento si riscontrano per i tecnici specializzati nella carpenteria metallica (70,5% di personale difficile da trovare), nelle costruzioni (69,9%), nella conduzione di impianti e macchinari (56,6%)”. A livello regionale “le imprese che faticano di più a trovare dipendenti operano in Trentino-Alto Adige, con il 61,6% del personale di difficile reperimento. Seguono quelle della Valle d’Aosta (57,1%), dell’Umbria (54,6%), del Friuli-Venezia Giulia (53,3%), dell’Emilia-Romagna (52,7%), del Piemonte (52%) e del Veneto (51,4%)”. Il Lazio è la maglia nera, con la percentuale più bassa: il 40,8%.
Il problema è trasversale, per geografia – come si è visto nei dati di Confartigianato – e per titolo di studio. Negli stessi giorni in cui veniva diffuso il Rapporto della confederazione degli artigiani, ci ha pensato Eurostat a certificare il difficile destino dei nostri laureati.
In base ai dati europei l’Italia ha il più basso tasso di occupazione dei neolaureati. Nel 2022, l’82,4% dei neolaureati di età compresa tra 20 e 34 anni nell’Ue era occupato, contro il 65,2% dell’Italia. Dal 2014 al 2022, il tasso di occupazione per questo gruppo è aumentato di 7 punti percentuali, mostrando una costante tendenza al rialzo interrotta solo dalla pandemia di Covid-19. Nel 2022, a livello nazionale, i tassi di occupazione dei neolaureati erano più alti in Lussemburgo e Paesi Bassi (entrambi 93%), Germania (92%) e Malta (91%). I tassi più bassi sono stati segnalati in Italia (65%), che ha fatto peggio anche della Grecia (66%) e della Romania (70%).
Dire che c’è un problema è un eufemismo. Come sostiene il presidente di Confartigianato, Marco Granelli, “di questo passo, ci giochiamo il futuro del made in Italy”. E aggiunge con buon senso che, “il dibattito su salario minimo e lavoro povero deve allargarsi ad affrontare con urgenza il vero problema del Paese: la creazione di lavoro di qualità”. Che cosa serve? “Un’operazione di politica economica e culturale che avvicini la scuola al mondo del lavoro, per formare i giovani con una riforma del sistema di orientamento scolastico che rilanci gli Istituti professionali e gli Istituti tecnici”, che “investa sulle competenze a cominciare da quelle digitali e punti sull’alternanza scuola lavoro e sull’apprendistato duale e professionalizzante”.
Da quanto tempo sentiamo queste raccomandazioni? Più o meno dallo stesso tempo in cui sentiamo echeggiare l’espressione “fuga dei cervelli”. Ed Eurostat con i numeri sull’occupazione dei neolaureati lo ribadisce. Quindi, sia che si tratti di lavoro tecnico e specializzato, sia che si tratti di lavoro intellettuale o che comunque richieda un percorso di studio più profondo, il risultato è lo stesso.
Continua a manifestarsi uno storico mismatch tra domanda e offerta di lavoro – provate ad attivare qualche stage in azienda! La mole di atti burocratici richiesti vi sfinirà – e continua l’indifferenza di chi dovrebbe occuparsene istituzionalmente (o sindacalmente). L’Anpal, agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, ha diffuso i risultati a sei mesi dall’avvio del cosiddetto programma “Gol” (acronimo che sta per garanzia per l’occupabilità dei giovani). Ad aver trovato lavoro è il 29,7%. Circa 240 mila su 809 mila persone “attivate” da almeno un semestre. C’è da brindare? Temo di no.
Fonte: Libero Economia