Dopo aver inseguito in questi ultimi anni l’illusione del “benessere di cittadinanza” ci ritroviamo a dover fare i conti con un bilancio pubblico fatto di un debito sempre più consistente e con un margine sempre più stretto per fare la manovra di fine anno. Il ministro Giorgetti ha dato anche una cifra: 12 miliardi, più o meno. Poco, pochissimo. Ma è proprio così?
Una cosa è certa ed è da sottoscrivere, rispetto alle tesi del titolare del Mef: senza reddito non c’è crescita. Senza la produzione di ricchezza è inutile pensare a come redistribuirla. Più o meno bisognosi, tutti finiranno per restare senza aiuto. Non ci sono pasti gratis: prima di essere il tormentone del liberismo anglosassone, la frase sintetizza il buon senso che molti sembrano aver perduto, vuoi nell’illusione di poter cancellare la povertà per legge, vuoi nell’illusione di poter addebitare tutti i conti alle generazioni future.
Ma il realismo che ritorna – ben ritrovato! – non può declinare nell’inerzia del pessimismo. I margini della manovra 2024 non sono né 12, né 30 miliardi, ma almeno più di 100, volendo addirittura 200. Favole? No, scelte di politica industriale ed economica, che compete al Governo, per disegnare il presente e soprattutto il futuro del Paese.
Nel 2010 l’allora ministro Giulio Tremonti istituì la commissione sulle “Tax expenditures”, affidandone la presidenza a Mauro Maré. Sembrò una iniziativa “una tantum”, capace comunque di mettere in fila circa 200 miliardi di euro che in modi diversi venivano sottratti alle entrate fiscali, attraverso centinaia di diverse forme di deduzioni o detrazioni. Tutto legittimo, nulla a che vedere con l’evasione, ma scelte di politica fiscale che derivavano dal sedimento di diverse azioni – spesso “micro-azioni” – di politica economica, più o meno inclini ai suggerimenti di lobby qualificate. La commissione venne poi stabilizzata al Mef nel 2016, offrendo ogni anno un rapporto, che forse risultò meno esplosivo, negli anni, in termini del totale delle risorse contabilizzate, ma che continuò a documentare un margine di manovra tutt’altro che esiguo.
Dai rapporti annuali sulle spese fiscali emerge che il numero totale di quelle erariali è considerevolmente aumentato fra il 2016 e il 2022, passando da 468 a 626, con gli incrementi più significativi nel 2018 (+10 per cento) e nel 2020 (+13 per cento); quasi due terzi delle misure sono in vigore da più di 5 anni. Anche l’effetto annuo complessivo sul gettito – relativamente alle misure per cui è disponibile una quantificazione – è cresciuto da 54 miliardi nel 2016 a 81 nel 2022.
Quindi ci sono più di 600 norme che consentono di defalcare le entrate fiscali con sconti e incentivi diversi, per un centinaio di miliardi. Forse non è possibile cancellarle tutte insieme: ma le stime mostrano che non è troppo difficile raccogliere qualche decina di miliardi. C’è già chi ha proposto di ridurre del 50% “quelle che costano meno di 100 milioni, oppure tagliarle tutte del 2%, o introdurre tetti di reddito oltre i quali lo sconto non scatta”. Stando ai confronti internazionali l’Italia è tra i Paesi Ocse con le spese fiscali più elevate, anche se i criteri di misurazione non sempre sono omogenei.
A questi sconti fiscali – ammessi nella dichiarazione dei redditi – si è aggiunta nel tempo la giungla dei bonus, che non comprende solo il superbonus 110%, che da solo drena risorse per 80-100 miliardi (soprattutto per interventi di efficientamento energetico). Si potrebbe considerare la possibilità di una ricognizione a tutto campo, per scegliere se è opportuno continuare a dedurre le spese per palestre e animali domestici, oltre che disboscare il ginepraio dei bonus senza controllo. E la manovra potrebbe disporre di parecchie decine di miliardi di euro.
Fonte: Libero Economia