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Nella manovra troppi soldi a chi non crea ricchezza

Più o meno un terzo della manovra 2023 sarà speso per il pubblico impiego. È una notizia ottima per circa 3 milioni di lavoratori italiani e relative famiglie. Un po’ meno per gli altri 18 milioni di lavoratori – dipendenti e non – che a torto o a ragione si vedranno messi un po’ da parte. E non bastano certo le briciole del cuneo fiscale a cambiare il loro sentimento.

Non si tratta di eccepire sulla necessità di adeguare stipendi e straordinari delle forze di pubblica sicurezza. Ma si tratta di chiedersi quale prospettiva disegna questa legge di bilancio per il futuro del Paese. Produttività, sviluppo, innovazione, giovani, imprese, infrastrutture (è noto che le strade non possono beneficiare dei fondi del Pnrr) restano solo evocazioni.

Le aziende private resteranno strangolate dalla tempesta perfetta scatenata dalla transizione energetica, dall’inflazione e dai tassi in costante aumento. E i loro dipendenti resteranno appesi al filo di una recessione che è sempre più probabile di un incredibile rimbalzo dell’economia, nazionale e internazionale. Non solo per i venti di guerra che soffiano dall’Europa al Medio Oriente. La prima manovra del Governo Meloni, lo scorso anno, era stata “obbligata” dalle scelte dei predecessori. Forse. E la manovra “magra” per il 2024 sarà condizionata da una congiuntura internazionale sfavorevole, ma non può essere imputata altrove se non a Palazzo Chigi e ai suoi attuali inquilini.

Magra lo è e potrebbe esserlo anche di più, purtroppo. I quasi 24 miliardi si ottengono aggiungendo ai 16 miliardi di extragettito, un presunto tesoretto derivante da ottimistici tagli di spese.

Puntare un terzo delle risorse (o poco meno) del Paese sul pubblico impiego rischia di far intuire una carente visione strategica. Che la strada fosse questa lo si era capito, quando pochi giorni fa il Parlamento ha accettato di votare uno scostamento di bilancio da 3,2 miliardi nel 2023 e 15,7 miliardi nel 2024, con una prelazione di risorse per assicurare già da quest’anno qualche euro in più per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego.

Come ha ricordato più volte Sabino Cassese il contributo più alto della Pubblica Amministrazione (Pa) è di tipo organizzativo, non quantitativo. Il problema non sono le assunzioni – se non per alcuni profili trascurati dalla Pa, da sempre – ma le competenze, la capacità di essere al servizio del Paese, la semplificazione (normativa prima che burocratica), la collaborazione con il privato. Il comparto pubblico non è mai motore di sviluppo, ma deve offrire capacità di coordinamento e fluidificazione dei processi e delle garanzie. “I controlli esterni, dei giudici penali, e interni, della Corte dei conti e dell’Anac – dice Cassese – piuttosto che aiutare a far funzionare meglio la Pubblica Amministrazione, hanno una funzione di blocco, suscitano quella che viene chiamata amministrazione difensiva, lo sciopero della firma, la fuga dalle responsabilità”.

Ho già detto e scritto più volte la mia stima per molta parte delle donne e degli uomini che lavorano nella Pa. Ne ho avuto esperienza diretta. E ho visto molta dedizione e poco opportunismo. Si sa che la pianta che cade fa più rumore della foresta che cresce. Il negativo è più evidente del positivo. Però non ho mai creduto, nemmeno quando ho guidato la più grande Pa d’Italia (e d’Europa, credo), di essere alla guida di una locomotiva dello sviluppo e della crescita.

Il pubblico impiego offre servizi, non produce ricchezza. La Pa può essere un aiuto, quando funziona, ma non può essere propulsore. A nessuno sfugge che il 2024 sarà un anno elettorale (per le europee e per alcune regioni e per molti Comuni) per cui servono molti strumenti per orientare opinioni e consenso. E il pubblico impiego è uno storico polmone di redistribuzione e di clientele. Ma questa dovrebbe essere un’altra storia.

Fonte: Libero Economia