Quando Carlo Nordio scriveva come opinionista informato e appuntito era un paladino forte e autorevole della libertà contro il giustizialismo che molti suoi ex colleghi magistrati propugnavano nelle aule di giustizia e sui giornali. Quando divenne ministro, confesso, mi era parso il “migliore” dei ministri possibili per il dicastero della Giustizia.
Ora mi viene il timore di aver perso un grande opinionista e di non avere acquisito un grande ministro: la tanto attesa riforma della Giustizia è stata rinviata dopo la riforma istituzionale. E non ne abbiamo compreso le ragioni. Sia detto con rispetto e con tutta la disponibilità a cambiare opinione, se cambieranno i fatti. Un’occasione si potrebbe profilare, laddove la giustizia incrocia i destini delle imprese.
Secondo la Banca d’Italia, il malfunzionamento della giustizia causa una perdita di Pil pari all’1%, ovvero circa 16 miliardi di euro all’anno. In questo computo stanno le lungaggini senza paragoni – più di 550 giorni per ottenere il primo grado di giudizio, più di due anni per il secondo grado, altri tre anni e mezzo per il terzo grado – ma anche i costi annessi come la proliferazione di uffici che nelle aziende (così come negli enti pubblici) si occupano di offrire quei giudizi di “compliance”, che finiscono per essere una valutazione di formale coerenza con il complesso di norme esistenti. Spesso anche oltre quanto previsto dalle norme, in verità.
Un caso clamoroso mi pare sia il mancato rispetto dell’articolo 27 della Costituzione: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Visto l’andazzo, consolidato in molti uffici “compliance” di aziende (ed enti pubblici) sarebbe più coerente che il ministro Nordio si facesse proponente di un nuovo e diverso articolo: “L’imputato non è considerato innocente sino alla sua assoluzione definitiva”. E non è un paradosso.
Delle due l’una: o si cambia la Costituzione o si mettono in riga tutti i soggetti – negli enti pubblici, come nelle aziende private – che hanno ormai sostituito la solida presunzione di innocenza con una vaga e liquida “web reputation”. Basta essere indagati per essere considerati inadeguati a sedere in un cda o in un collegio sindacale, in un organismo pubblico, così come in una impresa privata. E le banche chiudono le linee di credito a quelle aziende che continuano a esibire consiglieri indagati, giudicati utili e competenti dal management dell’impresa, ma ritenuti inidonei al ruolo dagli “uffici compliance”, spesso composti da personale amministrativo senza qualifica specifica, che si trova a giudicare prima e più dei giudici.
Di fatto il giudizio finale si compila sui ritagli di giornale (o dei post pubblicati sui social) che Google ha rilevato nei suoi database. Con buona pace delle competenze professionali e della presunzione di innocenza. E delle risultanze dal casellario giudiziario.
Si tratta di uno scandalo quotidiano, cui tutti i soggetti economici si sono adeguati, in un silenzioso torpore, che crea danni e ritardi all’attività economica. E produce diffidenza e sfiducia. La scarsa fiducia genera bassi investimenti da parte delle imprese, soprattutto straniere, nel nostro Paese. Se in un anno in Gran Bretagna gli investimenti stranieri arrivano a 45 miliardi di euro, in Spagna 20, in Italia ci si ferma a 5.
La nostra economia è strangolata non solo dai tassi in rialzo, ma da un cattivo costume, palesemente incostituzionale, che continua a vigere come se fosse ineluttabile, creando piccoli e grandi mostri giuridici o simil-giuridici. Come il rating di legalità cui le banche si attengono per erogare fiducia e finanza. Ma se poi si va a vedere chi e come compila questa “compliance” alla legalità, ci si ritrova nel Paese assurdo dove lo Stato di diritto ha alzato bandiera bianca.
Fonte: Espansione