Gli “storici” individuano l’inizio nel 2001. I “cronisti” da più di vent’anni si limitano a dare conto delle materie diverse e disomogenee (si è passati dai nove articoli del 2001 al record di 44 articoli nel 2019, quest’anno “solo” 20 articoli) che sono stipate nel “Milleproroghe”.
Da quel lontano 2001 i Governi di ogni forma e colore emettono un provvedimento – un decreto legge – con il quale “prorogano” alcune leggi in scadenza o rinviano l’entrata in vigore di alcune norme già approvate e previste. Di per sé un discreto fallimento dell’attività politico-istituzionale. È un potere che i cittadini non hanno: se non rispettano le scadenze vanno in mora. Le Istituzioni no. Non pagano dazio, anche se non sono riuscite a fare quanto si erano ripromesse. Una brutta asimmetria Stato-Cittadini. All’amministrazione pubblica è consentito di fare (o non fare) anche in deroga alle leggi. Basta riparare con un “Milleproroghe” annuale (nel 2003 e nel 2006 è successo anche due volte in un anno). Ai cittadini manca questa prerogativa, che invece viene esercitata (contro la norma costituzionale) dai Governi e dai Parlamenti.
È una brutta abitudine, quasi un vilipendio – se così si potesse dire – della Carta costituzionale (sarà la più bella, ma dopo 75 anni forse viene un po’ sbeffeggiata, come molti anziani), che limita ai casi di necessità e urgenza la possibilità d ricorrere al decreto legge. Necessità e urgenza impongono anche una coerenza tematica, che per definizione il “Milleproroghe” non rispetta, essendo un “omnibus”.
Scandaloso? Sì, se ci fosse ancora una sensibilità istituzionale nelle Istituzioni. A nulla sono valsi anche i ripetuti richiami (e in verità inefficaci) del Colle. Nel febbraio del 2011 Giorgio Napolitano prese carta e penna per scrivere una intemerata all’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.
Nella lettera inviata all’esecutivo l’allora Presidente lanciò un avvertimento al Governo: un altro caso come questo e il Quirinale si avvarrà «della facoltà di rinvio» del provvedimento. Non accadde nulla allora, né dopo. Lettera morta. In sostanza fu più un atto politico che un intervento istituzionale, visto che rimase privo di effetti. Napolitano rimarcò, con buone ragioni, “vizi di incostituzionalità” per “l’ampiezza ed eterogeneità delle modifiche fin qui apportate nel corso del procedimento di conversione al testo originario del decreto legge cosiddetto Milleproroghe”. Nel decreto, allora come sempre, si era infilato di tutto.
Anche l’anno scorso, febbraio 2023, dal Quirinale giunse una rampogna, nel metodo – nella lettera si sottolineava l’eccessiva “disomogeneità” degli articoli della legge, e quindi dei suoi contenuti – e anche nel merito: il Capo dello stato se la prese (con più di una ragione) con la norma sui balneari, minacciando il rinvio alle Camere, in base alla facoltà attribuita al Presidente della Repubblica dall’articolo 74 della Costituzione. Anche allora non se ne fece nulla.
E quest’anno rieccoci al nuovo “Milleproroghe”. Nessuna colpa specifica al Governo Meloni, ovviamente. Se non l’adesione a un costume – malcostume – condiviso da oltre vent’anni, con tutti i Governi che si sono succeduti con maggioranze diverse e di ogni colore. Il decreto “Milleproroghe” si è da sempre rivelato il veicolo istituzionale ideale per aggiustare quanto non si è riusciti a inserire in Legge di Bilancio.
Certamente un brutto spettacolo. Se non ci fosse da piangere si potrebbe anche sorridere. Nel decreto “Milleproroghe” di quest’anno (necessità e urgenza!) è stata inserita anche una norma che riguarda il terremoto di Messina del 1908. Il Governo si impegna (entro il 31 dicembre 2024) a chiudere la baraccopoli (e le case abusive sorte in sequenza) – dove sembrano risiedere ancor 1700 famiglie – sorta dopo il sisma di più di un secolo fa.
Fonte: Libero Economia