La “spending review” è una locuzione che non va sempre di moda. In anni passati è stata la chiave di volta per chiunque avesse voluto esporsi e proporsi come salvatore della Patria; anche se poi la Patria non mi sembra che sia stata salvata da nessuno. Tantomeno dagli apostoli della “spending review”, che hanno spesso costruito un proprio successo personale, accontentandosi di enunciare buoni propositi.
Quando sono stato presidente dell’Inps ho visto tagliato – e con buoni motivi – l’emolumento destinato al mio ruolo, salvo poi vederlo raddoppiare per i miei successori. I tempi cambiano. Dopo aver assistito e contribuito ai lavori di diverse commissioni parlamentari dedicate alla “spending review” e al tema cugino delle “tax expenditures” (che insegue una razionalizzazione dei conti, nel rapporto dello Stato con il contribuente), ho visto in anni recenti riaprirsi i cordoni della borsa: dalla raccomandazione “spendi poco, spendi meno” si è passati all’esortazione “spendi tanto e spendi presto”. Il dopo-Covid e il Pnrr hanno contribuito a moltiplicare piccoli mostri golosi e insaziabili.
Ora, con il nuovo patto di stabilità varato in Europa, ci siamo risvegliati dal sonno. Un po’ intorpiditi. E abbiamo riascoltato l’eco delle parole “spending review”. Alberto Mingardi sul Corriere della sera ha ricordato che “il ministro Giorgetti ha paragonato le spese degli ultimi anni a una droga cui ci siamo assuefatti.
Ma oltre allo spreco e al danno, si profila un rischio peggiore: non sapere quanto e perché si spende. È quello che si desume dal recente studio compilato dalla Ragioneria Generale dello Stato (Rgs) sulla «Valutazione delle politiche pubbliche e revisione della spesa», inserito in uno studio più articolato svolto dall’Ocse. Oltre al piglio di studio, lascia un po’ perplessi come il contributo di un organo dello Stato, finisca per essere solo argomento di analisi e non premessa di un coerente piano di azione.
La Ragioneria Generale dello Stato è un organo centrale di supporto e verifica per Parlamento e Governo nelle politiche, nei processi e negli adempimenti di bilancio e ha come principale obiettivo istituzionale quello di garantire la corretta programmazione e la rigorosa gestione delle risorse pubbliche. Vedere che la stessa Rgs certifica una sostanziale incapacità – o impossibilità? – di verifica della congruenza della spesa con i fini dichiarati, non è motivo di conforto per i contribuenti.
Non sapere se i fondi pubblici stanziati siano stati utili e siano stati correttamente spesi allo scopo è un problema che somiglia alla possibile distrazione di fondi. In qualunque azienda privata ci sarebbero le premesse per un’azione di responsabilità contro i vertici dell’impresa. Nello Stato e nelle Pubbliche Amministrazioni sembra che la questione sia avvertita solo come argomento di studio. Possibile che a fronte di supporti informatici sempre più complessi e strutturati, nella Pa non si possano individuare con certezza i percorsi intrapresi dalle somme stanziate e autorizzate? Sì, possibile, purtroppo. L’Intelligenza artificiale (e non solo) non abita qui.
E purtroppo è altrettanto possibile – e poco rassicurante – che invece della ricerca della responsabilità ci si accontenti di compilare una dotta reportistica, anche da parte di chi dovrebbe svolgere un ruolo molto più operativo: alla Rgs è delegata la certezza e l’affidabilità dei conti dello Stato, la verifica e l’analisi degli andamenti della spesa pubblica. I centri studi sono preziosi, soprattutto quando sono indipendenti e privi di responsabilità sull’oggetto di studio.
Fonte: Libero Economia