In Europa la rappresentanza delle organizzazioni agricole si riassume dietro la doppia sigla Copa-Cogeca. Lo abbiamo imparato in queste settimane di protesta dei trattori. La somma di 23 milioni di agricoltori (Copa) e di 22mila cooperative agricole (Cogeca) ha offerto una sintesi sufficiente per farsi intendere presso la Commissione europea, con una voce sola, plurale finché si vuole, ma una, unica.
In Italia ancora una volta non è, e non è stato così. Oltre alle sigle note – da Coldiretti a Confagricoltura, da Cia a Copagri, e per le cooperative gli universi che vanno dalla Confcooperative alla Lega delle cooperative – si sono aggiunte altri gruppi organizzati che hanno assunto posizioni assai diversificate e persino opposte, da “Riscatto agricolo” al “Cra-Agricoltori traditi”.
Il Paese dei mille campanili non si è smentito. Il Paese degli ottomila Comuni e delle centinaia di acque minerali in bottiglia, si offre alla battuta che Charles de Gaulle fece per i “suoi” formaggi – “come si può governare un Paese che vanta 250 tipi diversi di formaggio” – ammesso che non sia stato un falso di “Newsweek”.
Non solo è difficile governare un Paese così segmentato, ma è difficile rappresentarlo. Quando per le prime volte incominciai a frequentare la sala Verde di Palazzo Chigi ho incominciato ad avere una plastica visione dei “tavoli” che sono sempre evocati per governare l’Italia. Tavoli infiniti, lunghissimi, con un paio di file per parte, per dare modo a tutti i rappresentanti – della società civile, del mondo del lavoro o dell’economia – di avere un affaccio sul potere (a sua volta frammentato tra partiti, istituzioni, agenzie governative).
La protesta dei trattori ha riconfermato – in Italia – questo modulo di infinita contrattazione, che finisce sempre per far preferire la discussione alla decisione. Inevitabile quando si fatica a trovare un rappresentante unico. Mentre si discute – a chi piace, a chi no – di presidenzialismo per dare maggiore efficienza agli organi di governo, si continua ad assistere a una polverizzazione della rappresentanza sociale, che prima ancora di essere dissuasa è di fatto promossa e favorita.
Nel Cnel siedono 48 rappresentanti delle categorie produttive in Italia. Nonostante la dimensione da parlamentino la stragrande maggioranza delle sigle sindacali non trova il suo posto. L’ex presidente del Cnel, Tiziano Treu, ebbe a dire alla Commissione Lavoro della Camera che “solo una minima parte dei contratti censiti risulta essere siglato dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative. È importante avere criteri di misurazione della rappresentanza, passo fondamentale per contrastare dumping contrattuale e salari bassi”.
Misurare la rappresentanza è condizione per sancire la rappresentatività, ma anche per bonificare la palude di autorappresentazioni che tanto male fanno alla crescita e alla velocità del Paese. L’attuale presidente del Cnel, Renato Brunetta, che molto ha dimostrato di saper fare nella giungla della Pubblica Amministrazione, saprà dare compimento a questa attesa – fin dalla definizione della Carta costituzionale – misurazione del peso della rappresentanza?
Lo sforzo è immane. Ed è politico, ancor prima che istituzionale. Nella memoria di pochi anni fa Treu concludeva: “Molti accordi nazionali – si legge nella memoria depositata alla Camera – portano la firma di sindacati minori, poco noti, che presentano sempre più spesso caratteristiche di multisettorialità. Ciò rende tali accordi applicabili trasversalmente e indistintamente a più ambiti produttivi. La conseguenza di tale trasversalità consiste nel venir meno delle tradizionali linee di demarcazione che hanno segnato nel tempo i vari “mercati del lavoro” esistenti a livello di territori, di distretti o di filiera”.
Fonte: Libero Economia