Secondo l’ultimo dato Istat (terzo trimestre 2023) sarebbero poco meno di 7 milioni i lavoratori in attesa di un rinnovo contrattuale nazionale. Più o meno il 50% del totale degli addetti. Dal 2019 sono in attesa i dipendenti del terziario – commercio, turismo, ristorazione – circa 5 milioni di persone. A fine 2023 sono scaduti i contratti di logistica portuale, autoferrotranvieri e calzature. Il mese prossimo scadranno quelli della moda e della logistica. Senza parlare del comparto pubblico.
C’è un problema nelle modalità tradizionali della contrattazione? Forse sì. Il confronto acceso sul tema del salario minimo per legge ha evidenziato una diffusa sfiducia nella forza e nella capacità contrattuale, da parte delle organizzazioni dei lavoratori. La bocciatura da parte del Cnel sull’ipotesi normativa del minimo salariale – che intendeva rilanciare la forza del confronto sindacale – non è stata colta come un’opportunità da parte delle confederazioni, che hanno spesso preferito manifestare su questioni politiche, piuttosto che su temi specificamente “lavoristici”.
Il fatto che in questi giorni – con un anticipo di tre mesi sulla scadenza – si sia avviato il percorso di rinnovo del contratto metalmeccanici è più un fatto simbolico che sostanziale sulla via dei rinnovi contrattuali. I numeri sono quelli che abbiamo appena rammentato. È vero che gli alimentari – che nel 2020 avevano atteso nove mesi per il rinnovo del contratto, che è scaduto a fine novembre 2023 – hanno già raggiunto un’intesa sull’aumento dei minimo tabellare, ma sono ancora lontani sul welfare che ormai costituisce tanta parte dei contenuti di rinnovo degli accordi. Gli aumenti retributivi non sono più l’unico elemento di confronto; si cercano sempre più spesso strade alternative (e integrative) che uniscano alla monetizzazione (fiscalmente penalizzata) altri elementi di valore sociale e assistenziale. Almeno a parole. Peccato che ogni volta che si affrontano questioni, non sempre esauribili nel confronto di primo livello, ci siano poi – a livello territoriale e aziendale – dei freni ancora incomprensibili.
Anche laddove la componente sindacale è solo aziendale è sempre più difficile cogliere le opportunità offerte da premi di risultato o di erogazione di benefici di tipo welfaristico. Il vincolo posto dalle organizzazioni sindacali anche a livello territoriale finisce per raffreddare anche le occasioni di reciproca (azienda e lavoratori) convenienza fiscale.
Inseguire il recupero dell’inflazione solo sulla componente salariale rischia di non consentire un’efficace via d’uscita rispetto allo storico ritardo degli aumenti retributivi che si è strutturalmente verificato in Italia. In questi giorni la Bce ha segnalato con soddisfazione che la crescita salariale nell’area euro è stata del 4,5% su base annua, contro il +4,7% del 2022. La lieve flessione del trend per la Banca centrale europea è un motivo in meno di preoccupazione sul fronte dell’inflazione – per evitare che si inneschi la spirale prezzi-salari – ma per l’Italia è solo motivo di invidia: si tratta di un incremento che alle nostre latitudini ci sogniamo. Per colpa della contrattazione tiepida? Anche. Ma soprattutto per il nodo irrisolto della produttività, che a livello contrattuale nazionale è da sempre considerata peggio di una Cenerentola.
I premi di risultato – che dovrebbero aiutare a percorrere la strada della produttività misurata – sono sempre vincolati a un accordo sindacale, di fatto nazionale, cioè “vidimato” dai rappresentanti sindacali territoriali, anche nelle aziende nelle quali l’attività sindacale si svolge senza collegamento con le organizzazioni nazionali. Un decentramento incompiuto, nelle relazioni sindacali, che fa male ai lavoratori e alle imprese.
Fonte: Libero Economia