L’inefficienza del sistema pubblico si misura anche sulle promesse non mantenute. I politici da anni giocano la carta dell’annuncio per cercare il consenso sul breve (o brevissimo) periodo. Ma i problemi veri nascono anche dopo che l’atto normativo primario (annunciato e promesso) è stato adottato. E inizia l’attesa dei “decreti attuativi”.
Prima che emettere il giudizio sull’attuale Governo, per questa cattiva abitudine, bisogna avere il buon senso di allargare la valutazione su tutti i Governi, almeno dell’ultimo decennio. Nella lunga lista d’attesa censita dagli esperti della Camera trovano posto 267 provvedimenti: “227 riferibili ai sei governi che si sono succeduti nella diciassettesima e nella diciottesima legislatura”, oltre ai 40 derivanti da leggi di iniziativa parlamentare nel corso delle precedenti legislature. Nei suoi due anni di vita il Governo Meloni ci ha messo del suo, non c’è dubbio, nonostante l’impegno più volte annunciato (appunto, annunciato) di produrre norme “autoapplicative” si sono accumulati 316 decreti “da attuare”.
La premier come detto è in buona compagnia, non solo con Draghi e Conte (per riferirsi alla mancata produzione di decreti nella scorsa legislatura) ma anche con Renzi, Letta e Gentiloni, visto che lo stock di decreti si è cumulato già nella legislatura precedente.
Cattiva abitudine che – secondo Sabino Cassese – conferma la scadente qualità della produzione legislativa, che rimanda ad altri atti la sua piena applicabilità. D’altro canto, questa continua attesa di un Godot sotto forma di decreto attuativo, immobilizza l’attività produttiva, quando – come spesso accade – le norme introducono novità e sgravi, che non diventano mai norma. Un caso recente, complicato dall’intreccio di competenze con Bruxelles, è quello del decreto “Industria 5.0”. Annunciato per la fine dello scorso anno, con inevitabile blocco degli investimenti da parte delle aziende che contavano sul nuovo credito d’imposta per attività nella transizione energetica e green, è stato sbloccato solo all’inizio di marzo con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Ma lo stesso potremmo dire della cosiddetta riforma fiscale, con la delega approvata sette mesi fa. Ma con un’attuazione che non è finita con la produzione dei decreti legislativi. Per rendere operative tutte le disposizioni contenute nei decreti finora pubblicati in Gazzetta Ufficiale servono ancora 44 atti di secondo livello, dopo i primi sette emanati nei giorni scorsi. In particolare, le norme menzionano 24 tra regolamenti e decreti ministeriali e 20 provvedimenti del direttore delle Entrate. Insomma, una giungla di nuovi atti normativi che ancora non rendono praticabili le novità presentate quasi un anno fa e deliberate a metà dello scorso anno.
In questo percorso di innovazione a scoppio ritardato si potrebbe iscrivere anche il mancato controllo sull’obbligo dei Pos. E qui non c’entrano i decreti attuativi, ma la semplice attuazione dei provvedimenti annunciati e assunti. Si è discusso a lungo sulle soglie minime di spesa per evitare il Pos, ma dal primo gennaio del 2023 la tagliola dei 60 euro non c’è più. Ma le sanzioni scattano solo su denuncia del consumatore che si vede rifiutato il pagamento digitale. È vero che in Italia il 69% delle transazioni nei punti vendita è ancora regolato con il contante (era l’86% nel 2016). Eppure, ormai i due terzi dei giovani sotto i 25 anni non usa più il contante, e sotto i 40 anni la percentuale è del 50%. La politica dovrà scegliere prima o poi se adottare la velocità del Paese reale che cambia o frenare il cambiamento, premiando chi guarda al passato, penalizzando chi ha bisogno di norme rapide e certe per investire e fare Pil.
Fonte: Libero Economia