Il 2024 sarà il grande anno elettorale: dalla Vecchia Europa agli Stati Uniti, passando per India, Messico e Indonesia, sono circa 4 miliardi i cittadini del mondo chiamati alle urne. Abbassando lo sguardo ai nostri confini domestici dobbiamo ripensare a una delle ultimissime esternazioni del 2023 del presidente Sergio Mattarella. Alla Vigilia di Natale il Capo dello Stato ha affermato: “Non possiamo trascurare l’attuale preoccupante flessione della partecipazione al voto, essenziale per la legittimazione delle istituzioni. Fiducia, partecipazione, democrazia sono anelli inseparabili di un’unica catena. Sottolineano il valore dell’attivo coinvolgimento nella vita della Repubblica in tutti i suoi aspetti. Da qui l’appello alla responsabilità di ognuno: tutti siamo chiamati a fare la nostra parte. E dunque è questa la base della nostra comune speranza”.
Già, un conto è il diritto al voto, un conto il suo esercizio. Un conto dove questo esercizio è reso difficoltoso da condizioni di vita difficili, un conto dove l’astensionismo si manifesta come libera e comoda scelta. In Italia il voto si è fatto merce rara. Le elezioni del 25 settembre 2022 hanno presentato un dato molto grave nel panorama politico sia italiano che europeo. L’affluenza alle urne ha subito un calo a livello nazionale di 9 punti percentuali, attestandosi al 63,9% degli aventi diritto. Il dato rappresenta il maggior crollo di partecipazione nella storia repubblicana.
C’è forse da preoccuparsi. Ma c’è anche di che stupirsi? Non credo. Se il 50% dei giovani italiani non vota forse è solo normale. Sarebbe più interessante indagare come mai metà va ancora a votare. Un paradosso? Solo in parte. Che motivo di partecipazione elettorale viene coltivata da un’offerta politica dove la coerenza è meno di un optional?
Anche il cambio di casacca degli eletti ha il suo peso: sono già 39 in un anno di legislatura, circa il 10% degli eletti. Questa disillusione potrebbe essere ulteriormente alimentata dalle numerose alleanze (coinvolgenti in varie forme il 90% dei deputati e l’86% dei senatori nell’ultima legislatura) che si sono susseguite nelle ultime legislature, anche tra partiti opposti ideologicamente.
Il campionario dell’incoerenza è ampio e distribuito in tutto il panorama politico. Dal Governo all’opposizione. Una distinzione che negli ultimi anni si è fatta labile e intercambiabile, per quasi tutte le forze politiche. Dall’alleanza Lega-M5S di cinque anni fa, al governo Conte 2 dove il posto delle Lega venne preso senza traumi apparenti dal Pd. Quello stesso partito che per M5S sarebbe stato impraticabile dopo i fatti di Bibbiano (il caso dei bambini “strappati” alle famiglie, vero o falso che fosse): “Mai con il partito di Bibbiano”, cioè mai più con il Pd. E invece…
Ma anche dalle vicende del Governo Draghi, quello dei “migliori”, non si collezionano prove di coerenza capaci di motivare indecisi e accidiosi: prima si conferma la grande trovata dei grillini – il superbonus del 110% – salvo poi indicarlo come la madre di tutte le frodi di Stato.
Tra la prima e la seconda Repubblica un vecchio autorevole rappresentante del Psi, Rino Formica, sosteneva che la politica è “sangue e merda”, senza rivelare la proporzione dei due ingredienti per le ricette di successo. In qualche modo metafore di coerenza e incoerenza, sangue e merda oggi sembrano sbilanciate verso la seconda, che si traduce anche in opportunismo sfacciato e maleodorante. E qui il caso di Luigi Di Maio fa scuola. Il giovane profeta di Beppe Grillo, il ministro con portafoglio ma senza competenza di molti governi, di colori diversi, convertitosi sulla via di Draghi e bocciato dagli elettori che non l’hanno voluto rivedere in Parlamento, si è fatto ripescare con un incarico – autorevole e ben pagato – dalla Commissione europea. Perché andare a votare?
Fonte: Espansione