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Giovani in fuga dall’Italia, serve una svolta sul lavoro

Nelle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, lo scorso maggio, è stato ricordato che tra il 2008 e il 2022 sono andati all’estero più di mezzo milione di giovani italiani. Di questi solo un terzo è tornato in Italia. Hanno lasciato il Paese soprattutto i laureati. Il 4% degli occupati a un anno dal titolo e il 5,5% di quelli a cinque anni.

Delle due l’una: o si riesce a essere attrattivi per altrettanti giovani stranieri, o ci si arrende a un depauperamento senza fine del nostro futuro. La mobilità internazionale è un vantaggio per tutti, a condizione che ci sia in entrambi i sensi. I giovani italiani che scelgono l’estero dichiarano di inseguire migliori remunerazioni, anche a costo di vedere azzerata, o quasi, la propria vita privata: il lavoro all’estero è sempre molto più competitivo. Insomma, chi supera il confine accetta – di buon grado, soprattutto se si tratta di un ragazzo under 35 – una conflittualità che è premessa all’aumento della produttività e quindi condizione per l’aumento retributivo.

Senza l’una (la produttività) l’altra (la rincora salariale) è puro esercizio ideologico. Tipico di una politica che non ascolta i rappresentati, e si limita a immaginare le condizioni e i tempi dei giovani, scanditi da un orologio fuori tempo. E infatti la nostra politica – così come la politica sindacale – continua a baloccarsi con dichiarazioni di intenti sui minimi salariali o sulle garanzie da assicurare ai giovani che si accingono al lavoro, senza cogliere il nodo della questione: molti giovani non hanno paura della concorrenza e della competitività; e il mercato del lavoro all’estero, una volta approdati, ha sirene convincenti, più della nostalgia della “comfort zone” di un sindacalismo a metà strada fra il paternalismo e il socialismo reale. Un terzo dei giovani che vanno all’estero non vuole tornare. Ci sarà un motivo!

L’argomento principale per i nostri giovani all’estero non sono le ferie, ma la carriera. Si tratta di un approccio – più competenza e più competizione – che entro i nostri confini sembra indicare un orizzonte poco apprezzabile. Tranne che dai giovani, da molti giovani.

Alla politica italiana potrebbe venire il dubbio che ai giovani interessano altre cose, rispetto alle “protezioni sociali”, benemerite, ma talvolta ingessanti, contrarie alla dinamicità dell’età e del futuro. Siamo sicuri che i giovani italiani che si avvicinano al lavoro preferiscano più tutele, invece che più “Far West”? La domanda è provocatoria e un po’ estremizzata, ma la nuova frontiera del lavoro è indicata dalle protezioni, o dalle opportunità?

Gli occhi di chi è chiamato a progettare il futuro del mercato del lavoro in Italia sembrano costantemente chiusi di fronte a questi segnali inequivocabili: nei giovani – che sia la generazione Z o la Y – si fa strada l’offerta delle tutele, o la proposta di carriera (che vuol dire produttività: parola fuori dal vocabolario italiano, ma ben presente in quello di tutti i grandi Paesi industrializzati)?

E’ possibile che in Italia il premio di produttività aziendale debba essere contrattato con il sindacato anche se in azienda la rappresentanza sindacale non aderisce alle principali organizzazioni dei lavoratori (anzi, dei pensionati, visto che ormai da anni il maggior numero di tesserati sono i lavoratori in quiescenza)? Il mercato del lavoro ingessato contribuisce e non poco a questa fuga, non solo di cervelli, ma di nuove competenze e di aperture feconde al futuro. L’ultima indagine Ipsos, in proposito, illustra una generazione molto meno “bambocciona” rispetto a quelle che forse si immaginano i nostri politici. La maggioranza dei giovani è disposta a trasferirsi lontano da casa (oltre a chi sceglie l’estero, il 18% si sposterebbe in Italia, il 32% nella regione, o in regioni limitrofe). Solo il 15% non intende lasciare il luogo natio. Insomma, siamo sicuri che la politica per il lavoro dei giovani debba essere fatta di meri bonus assistenziali e incentivi “una tantum”?

Forse, invece che dedicarsi a meritorie riforme istituzionali – dal premierato all’autonomia, ma l’appunto è esteso a tutte le politiche di distrazione di massa, praticate dai Governi di colore diverso dall’attuale – sarebbe più utile e salutare riformare il mercato del lavoro, liberalizzarlo, adeguarlo alle attese di chi, più giovane, ha voglia di rischiare un po’ di più. Per avere un po’ di più.

Fonte: Il Riformista