Forse sarebbe ora di riformulare l’articolo 27 della Costituzione, trasformando l’attuale precetto – “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” – in un più realistico: “L’imputato non è considerato innocente sino alla sua assoluzione definitiva. E in qualche caso nemmeno dopo”. Sarà la più bella del mondo, ma la nostra Carta fondamentale mostra qualche segno dei tempi. E un lifting potrebbe non bastare.
La contrapposizione tra giustizialisti e garantisti non è solo una delle mille varianti che hanno animato la nostra storia patria, litigiosa e faziosa dai tempi dei Montecchi contro i Capuleti. C’è un problema più profondo di civiltà che è più radicale del trasformismo pratico che spesso ha finito per risolvere il dubbio del contrasto ideologico.
Abbiamo digerito i tempi biblici in cui in Italia si passa dall’accusa al terzo grado di giudizio. E forse anche per questo è parso accettabile erigere tribunali del popolo nella forma di quel mostruoso ircocervo prodotto dal potere mediatico congiunto a quello giudiziario, dove il sospetto (o l’accusa) ha coinciso con la condanna, senza appello. Erga omnes. Abbiamo ammesso poi la turbativa del sistema economico e imprenditoriale accettando la proliferazione degli “uffici compliance” in tutte le grandi aziende e in molta Pubblica Amministrazione.
Proprio in questi uffici si producono “atti giudiziari” senza giudice e senza processo, scegliendo preventivamente – sulla base di semplici accuse e molto spesso con l’ausilio di ritagli di giornale, o di post collezionati sui social media – le imprese che possono concorrere alle gare di appalto, o i manager degni di sedere nei consigli di amministrazione, o i professionisti cui affidare un incarico. E le banche chiudono le linee di credito a quelle aziende che si ostinano a esibire consiglieri indagati, giudicati utili e competenti dal management dell’impresa, ma ritenuti inidonei al ruolo dagli “uffici compliance”, spesso composti da personale amministrativo senza qualifica specifica, che si trova a giudicare prima e più dei giudici.
Delle due l’una: o si cambia la Costituzione o si mettono in riga tutti i soggetti – negli enti pubblici, come nelle aziende private – che hanno ormai sostituito la solida presunzione di innocenza con una vaga e liquida “web reputation”.
Oltre al danno arrecato alle persone (spesso non quantificabile) si compromette il sistema economico e la vita delle aziende. Secondo la Banca d’Italia, il malfunzionamento della giustizia causa una perdita di Pil pari all’1%, ovvero circa 16 miliardi di euro all’anno. In questo computo stanno le lungaggini senza paragoni – più di 550 giorni per ottenere il primo grado di giudizio, più di due anni per il secondo grado, altri tre anni e mezzo per il terzo grado – ma anche i costi annessi, come la proliferazione di uffici che nelle aziende (così come negli enti pubblici) si occupano di offrire quei giudizi di “compliance”, che finiscono per essere una valutazione di formale coerenza con il complesso di norme esistenti. Norme ordinarie che – contraddicendo la Costituzione – ritengono che l’accusa per alcuni reati equivalga a una condanna sufficiente a escludere da una gara, da una linea di credito o da un incarico fiduciario.
Si tratta di uno scandalo quotidiano, cui tutti i soggetti economici si sono adeguati, in un silenzioso torpore, che crea danni e ritardi all’attività economica. E produce diffidenza e sfiducia. La scarsa fiducia genera bassi investimenti da parte delle imprese, soprattutto straniere, nel nostro Paese. Se in un anno in Gran Bretagna gli investimenti stranieri arrivano a 45 miliardi di euro, in Spagna 20, in Italia ci si ferma a 5.
La nostra economia è strangolata non solo dai tassi fissati dalla Bce, ma da un cattivo costume, palesemente incostituzionale, che continua a vigere come se fosse ineluttabile, creando piccoli e grandi mostri giuridici o simil-giuridici. Come il rating di legalità cui le banche si attengono per erogare fiducia e finanza. Ma se poi si va a vedere chi e come compila questa “compliance” alla legalità, ci si ritrova nel Paese assurdo dove lo Stato di diritto ha alzato bandiera bianca.
Il giustizialismo non è solo ingiusto, è anche oneroso. Favorisce solo lo status quo, fornisce argomenti e strumenti per immobilizzare ogni risorsa non gradita, ogni novità imprevista. Carlo Nordio nei panni del commentatore si era fatto campione del garantismo più convinto e convincente, vorremmo che da ministro non si dimenticasse del suo passato. E magari con una semplice norma ordinaria ristabilisse la vigenza dell’articolo 27 della Costituzione.
Fonte: Il Riformista