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Sergio Mattarella, il Presidente più pop di sempre

Sergio Mattarella ci sta abituando a una versione sempre più “pop” del ruolo del Capo dello Stato. E dimostra che poco conta l’età anagrafica, quanto piuttosto la sintonia con lo spirito dei tempi. Non fu solo la prima apparizione dell’ospite del Quirinale durante il festival di Sanremo (lo scorso anno) a incoronare la sua vocazione “pop”. Il Presidente della Repubblica alterna severi appelli alla libertà di stampa a ironie lessicali su proposte di legge. 

Ai tempi della Prima Repubblica, fino agli sconquassi decisi dal “picconatore” Francesco Cossiga, dal Quirinale trapelavano segnali, affidati a una casta di intermediari – i “quirinalisti” – che trasformavano una presenza o un’assenza da una cerimonia pubblica in un segnale o in un monito. Dopo Cossiga – in verità già con Sandro Pertini, ma più per caratteristiche storiche e umane della sua persona – tutto è cambiato. Abbiamo avuto ancora interpreti più composti, ma ormai consapevoli di un filo diretto con l’opinione pubblica.

Con Giorgio Napolitano, poi si è rotto l’orizzonte della durata. Il settennato ha finito per non essere più un dato costituzionale. Dall’eccezione si è giunti a una sorta di prassi consolidata, con Mattarella e la sua rielezione. Qualcuno ha considerato che con Napolitano il Capo dello Stato ha cominciato – e con Mattarella ha proseguito – ad alternare il ruolo dell’arbitro con quello del giocatore. Di certo il presunto compito del notaio è finito da tempo.

Non ci si immagina un notaio disquisire sull’opportunità di difendere il vocabolo “sindaca” qualora fosse minacciato dall’omologazione verso il suo maschile “sindaco”. Tanto più se questo è l’oggetto di una proposta di legge, bislacca e opinabile, ma pur sempre promossa da un rappresentante del popolo italiano. Nello specifico è curioso ricordare che Giorgio Napolitano la pensava esattamente al contrario di Mattarella, almeno su questo argomento. Replicando all’allora “ministra” Valeria Fedeli, Napolitano ebbe a dire: “Insisto in una licenza che mi sono preso da molto tempo: quella di reagire alla trasformazione di dignitosi vocaboli della lingua italiana nell’orribile appellativo di ministra o nell’abominevole appellativo di sindaca”.

D’altronde non poteva essere “pop” il Capo dello Stato cui si attribuiva l’epiteto di “re Giorgio”. La sua aristocrazia si inseriva nel solco del suo partito che ha preteso al proprio leader storico l’attribuzione di “Migliore”. Mattarella è figlio e interprete di un mondo diverso, a dispetto del suo look in grisaglia. Sa restare sotto il diluvio di Parigi facendolo notare agli osservatori, ma senza sottrarsi a una goccia, se non con una protezione in plastica da turista.

In questo “mood” in sintonia con il tempo presente, Mattarella interviene su tutto. O quasi. In tema di giustizia le sue afasie sono frequenti e non sempre comprensibili. Anche quando è sollecitato dai suoi stessi colleghi – il Capo dello Stato è il vertice dell’organo di autogoverno della magistratura, il Csm – si sottrae. Era il tempo del “caso Palamara”, circa tre anni fa, quando 67 giudici chiesero al Capo dello Stato un intervento sulle modalità di nomina dei componenti del Csm. Non ebbero risposta.

Il silenzio su questi temi si protrae ai giorni nostri. Un ex vicepresidente del Csm, David Ermini, è coinvolto in una polemica che lo induce alle dimissioni dalla direzione del Pd e al mantenimento di un ruolo apicale in un’azienda che ha i vertici sotto inchiesta per le indagini di Genova sul “caso Toti”. Ma su tutto ciò – dalla solita mano della magistratura che si protende sul mondo della politica e della politica elettiva, alla commistione politica-affari, plasticamente confermata da Ermini – il Capo dello Stato è stato lontano miglia e miglia. Nessun commento nemmeno sul “caso Pignatone”. E si tratta sempre di rappresentanti di quella magistratura su cui vigila costituzionalmente il più alto Magistrato: il Capo dello Stato. Prudenza? Molta. Opportuna? Forse. Ma è certo che chi tanto si espone con dichiarazioni e commenti su tutto, inevitabilmente crea attorno a sé aspettative di “saggezza” anche – e ancor di più – sulle questioni più spinose.

La contemporaneità è compulsiva, non accetta silenzi. Pretende sempre qualcosa su tutto. I latini dicevano “de minimis non curat praetor”. Oggi è il tempo dell’esatto contrario, il rischio è che tutto finisca per essere bagatellare, ma tuttavia tutto sembra degno di un’opinione. Anche per questo una parola del Presidente sulla giustizia, sui suoi errori, sulla sua commistione con la politica, ci piacerebbe sentirla. 

Fonte: Il Riformista