Ne parlano tutti. Anche troppo. Non vorrei aggiungere incompetenza a tanta competenza di cui si legge. Ma il tema dello smart working dovrebbe imporre un nuovo sguardo non solo sulla nuova organizzazione del lavoro, ma su una parte non modesta della nuova economia. Il sistema economico post-pandemia sarà guidato da un diverso valore degli immobili, da una diversa economia dei servizi di prossimità, da una nuova mappa dei trasporti (urbani ed extraurbani), da nuove abitudini di consumo (lavorare in tuta o in pigiama cambierà lo stile e le quantità degli acquisti di abbigliamento), da nuove garanzie di connessione (la rete deve migliorare ovunque) e da nuove abitudini abitative: senza credere alla favola del lavoro dai posti più belli del mondo, c’è da credere che il trend della massiccia urbanizzazione che ha segnato gli ultimi decenni si sia interrotto a favore di una rinascita delle aree marginali o periferiche. Tutte le più affermate archistar (da Stefano Boeri a Rem Koolhaas) hanno profetizzato in questo senso, e non c’è motivo per non crederci.
Le aree urbane a maggiore concentrazione residenziale si sono dimostrate più fragili, più esposte ai contagi; il distanziamento sociale è prevalso come nuova abitudine. La digitalizzazione si sta affermando – anche alle nostre latitudini, abitualmente pigre all’innovazione tecnologica – come un elemento di connessione sostitutiva e più sicura rispetto alla prossimità fisica. Dall’e-commerce allo smart working, dalla telemedicina alla teleassistenza, quello che sembrava l’esercizio di qualche pioniere digitale si sta affermando come una nuova abitudine, perfettamente compatibile con la prevalenza dei territori “marginali”, distanti dalle grandi aree urbanizzate.
Sull’evoluzione delle organizzazioni del lavoro ha già scritto parole importanti un super-esperto come Domenico De Masi. Nelle quasi 700 pagine del suo “Smart working” (editore Marsilio, uscito poco meno di tre mesi fa, nel tardo autunno del 2020) ha tracciato l’evoluzione – forse un po’ utopica – del lavoro da remoto. Sì, bisognerebbe almeno in questa fase ribadire che quando parliamo di smart working parliamo solo di “remote working” o se si preferisce di “house working”. Che non è detto si tratti di lavoro “intelligente” o “agile”.
Di certo il fenomeno ha travolto le abitudini di tutto il pianeta. Italia compresa. Nella sinossi del volume di De Masi si legge: “All’inizio del 2020 circa 570 mila italiani lavoravano in smart working (+20% rispetto al 2018), ma tra il 28 febbraio e il 31 agosto 2020 (dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano),senza nessuna intenzione o preparazione, è stato realizzato in Italia il più grande esperimento organizzativo mai tentato nella storia del paese. Tutti insieme, milioni di lavoratori – impiegati, funzionari, manager, dirigenti e imprenditori – hanno improvvisamente smesso di lavorare in ufficio, come facevano da secoli, e hanno cominciato a lavorare da casa. Stessa cosa è accaduta nel resto del mondo, e più o meno nello stesso arco di tempo, a tre miliardi di colletti bianchi”.
E’ certamente un cambiamento epocale. Per il mondo del lavoro e non solo. Ma sarebbe un peccato non cogliere questa novità per guidare la ripresa economica, per cogliere i nuovi indirizzi di sviluppo. Che riguardano tutto il settore immobiliare. E’ vero che gli uffici avranno bisogno di meno spazio? In un recente seminario promosso da Hrc di Giordano Fatali, c’è chi ha azzardato che basteranno spazi diminuiti del 40-60% rispetto agli attuali.
Siamo sicuri? Nello stesso webinar molti Hr manager hanno segnalato la richiesta dei collaboratori di tornare in ufficio, al più presto. Per recuperare il contatto sociale perso, secondo i lavoratori; per un miglior controllo, secondo i loro dirigenti.
In questi mesi di emergenza ci si è arrangiati a lavorare anche in cucina. Ma non tutti hanno una stanza in più a casa, per poter assicurare e assicurarsi il miglior lavoro possibile. Il rapporto di giornate di lavoro da casa e da ufficio oscilla in un rapporto 4/1 o 3/2. Ma dove si collocherà l’oscillazione finale? Ma se cambiano le esigenze immobiliari e le metrature degli uffici, potrebbero cambiare anche quelle delle abitazioni private, se lo smart working (o remote working, che dir si voglia) finirà per affermarsi.
Le infrastrutture di trasporto (almeno per quanto riguarda il lavoro) diventeranno meno importanti di quelle di connessione informatica o telematica? Si dovranno ridisegnare i piani di sviluppo urbano e di progettazione edilizia? New York in questi mesi ha perso 600mila residenti: due terzi della popolazione di Napoli, la metà dei residenti nella provincia di Brescia. Non sono piccoli cambiamenti. E si porteranno dietro trasformazioni dell’economia di prossimità: bar, caffetterie, ristoranti, negozi di ogni genere. Senza dover immaginare di poter fare pianificazioni di memoria sovietica, sarebbe un peccato di omissione non tenerne conto nella progettazione delle nostre città, delle loro trasformazioni.