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Rivoluzione o dittatura? Economia e Politica Digitale ai tempi dei Social

Rivoluzione o dittatura? Economia e politica digitale ai tempi dei social

Sembrava che la polemica si fosse sopita, quando pochi giorni fa Bill Gates l’ha riaccesa. Ed era inevitabile che si rianimasse il tema del nostro futuro (e presente) digitale. Il fondatore di Microsoft, commentando l’espulsione di Donald Trump dai social media ha detto: “Penso che probabilmente a un certo punto gli verrà permesso di tornare sui social, e credo che dovrebbe essergli permesso. La gente ha interesse a sapere che cosa dice”.

A prescindere dalle opinioni di Trump e da quelle di Bill Gates il nodo irrisolto delle “big tech” si ripresenta. «La censura di Trump crea un doppio cortocircuito. Equipara di fatto i social network agli editori tradizionali, scegliendo di non dare voce a un utente, esattamente come farebbe l’editore di un quotidiano. Comprese anche le problematiche in cui sono coinvolti, tra cui i diritti di copyright. Dall’altra, mette in crisi coloro che hanno sempre denunciato i social perché sottratti alla regolamentazione pubblica: Twitter e Facebook si sono, letteralmente, autoregolati. L’espulsione di Trump è un atto eclatante ed apre un dibattito che si svilupperà a lungo». Parola di Alberto Mingardi, uno dei più giovani e acuti profeti del liberismo economico, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, professore associato di Storia delle Dottrine Politiche all’Università IULM di Milano e autore di “Contro la tribù – Hayek la giustizia sociale e i sentieri di montagna”.

C’è anche un terzo cortocircuito, che forse è all’origine degli altri. Ed è quello legato all’impresa economica, alla creazione di valore che pone le “big tech” come animali sguscianti rispetto alle norme fiscali europee. Questione sempre più attuale e urgente in questa perdurante emergenza sanitaria.

Fa notare Mathias Döpfner, AD della società di media tedesca Axel Springer, che a gennaio 2020 la capitalizzazione di Borsa di Google, Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Tesla era di 3,9 trilioni di dollari. A gennaio 2021 il valore di mercato è salito a 7,1 trilioni di dollari, un aumento dell’82%. Questo mentre l’Europa ha perso 255 milioni di posti di lavoro (secondo le stime Ilo, calcolando le ore di lavoro perse) e centinaia di migliaia di imprese rischiano il fallimento. Nel frattempo, le sole Google e Facebook controllano circa il 46% del mercato pubblicitario mondiale e, se continua in questo modo, nel 2024 ne controlleranno il 60%.

Ciò che è accaduto in più nel 2020 è che moltissimi consumatori sono stati molto più tempo a casa e la rete è stato l’unico punto di accesso alla socialità, allo shopping, allo studio e al lavoro.

“Le Big Tech, nate come espressione del libero mercato, sembrano ormai legate indissolubilmente ai decisori politici, tanto da fornire output non desiderabili, tali da far fallire le proprie stesse premesse. Il risultato è un conglomerato di potere, più vicino alle logiche del crony capitalism che del free market” come sostiene l’intervista a Mingardi su Ninjamarketing.

Da un lato assistiamo alla fine della “favola bella” secondo cui le piattaforme digitali, dal web ai social media, avrebbero dato più libertà agli utenti, favorendo la disintermediazione dell’informazione e dei contenuti. Sono solo cambiati gli intermediari e – se possibile – sono persino diventati meno trasparenti. La gestione dei big data che si accumulano negli archivi delle “big tech” richiedono algoritmi che costituiscono la premessa per la nuova costruzione della realtà. Come scrive l’ultimo rapporto Censis-Ucsi sui media digitali: “Si è dunque radicata la fede nel potenziale di emancipazione delle comunità attribuito ai processi di disintermediazione resi possibili dalla rete attraverso il lifelogging, il self-tracking e i big data, all’interno di un percorso che potremmo definire di autodeterminazione digitale basata sul continuo feedback dei dispositivi tecnologici (per questa via, i media digitali hanno finito per contribuire alla divaricazione del solco tra élite e popolo)”.

Non solo. Quel territorio di libertà promessa ha finito per favorire la polarizzazione delle opinioni. Il mondo dell’informazione in rete conferma le opinioni, non le apre ad altre. Ancora Mingardi: «Twitter e Facebook ci ricordano tutti i giorni come sia cambiato Internet. Speravamo fosse uno spazio aperto, nel quale potesse svilupparsi un dibattito più razionale e sereno, invece i social replicano, in certi casi inasprendola, la tribalizzazione anche politica che si riscontra nelle nostre società. Il cerchio delle cose che leggiamo si restringe. Gli algoritmi dei social media aiutano ciascuno di noi a costruire la propria echo-chamber, impermeabile a qualsiasi contaminazione di altre opinioni».

L’eco diventa un rimbombo delle stesse parole, delle stesse opinioni. E per chi fa attività economica c’è una prateria da conquistare. Citando ancora il rapporto Censis-Ucsi: “Si è quindi arrivati all’avvio del nuovo ciclo della economia della disintermediazione digitale (dall’e-commerce all’home banking, dai rapporti in rete con le amministrazioni pubbliche alla condivisione online di beni e servizi), con lo spostamento della creazione di valore da filiere produttive e occupazionali tradizionali in nuovi ambiti, perché per i cittadini e i consumatori si amplia notevolmente la gamma degli impieghi di internet, che oggi consente di rispondere a una pluralità di bisogni molto più articolati e sofisticati rispetto alla sola esigenza di comunicare, di informarsi e di intrattenersi”.

I proprietari degli algoritmi hanno fondato una nuova democrazia? Di certo hanno avuto troppa libertà di eludere il fisco e di muoversi su settori diversi, utilizzare la leva della finanza investita dalla massa monetaria enorme creata dalle banche centrali con il QE e non arrivata nell’economia reale. Hanno agito senza regole nella raccolta dei dati dei cittadini, degli Stati e delle imprese e nella loro elaborazione. Ma altrettanto certamente buona parte della politica e delle istituzioni ha accumulato un ritardo colpevole nella trasformazione digitale. Un’altra lezione che il coronavirus ci lascia: la necessità di accelerare la consapevolezza e la trasformazione dei processi digitali. Per non restare sempre un passo indietro al mercato.