L’ignoranza è sempre dell’altro. Solo Socrate ammetteva candidamente la “dotta ignoranza” propria, come premessa di ogni sapere: “So di non sapere”. Oggi basta “googlare” e si diventa esperti di tutto. Ma qualche anno fa la stessa accusa che si rivolge al web (e ai social) come “madre di tutte le ignoranze”, veniva attribuita alla televisione, che in verità ci ha lasciato l’eredità dei talk show, luoghi dell’imperitura ignoranza camuffati da arene del sapere.
Ed è paradossale riscoprire la zavorra dell’ignoranza, proprio nella stagione avviata con il “Governo dei migliori”. D’altronde anche Mario Draghi – difficile non definirlo il riconosciuto capo dei migliori – ha dovuto venire a patti con riconosciuti rappresentanti dell’ignoranza e dell’incompetenza, all’interno del suo stesso governo. Non faccio nomi, ma ognuno ha in mente i propri. E’ il tempo delle contraddizioni. E non bisogna scandalizzarsi, forse. Ma certo è lecito parlare del rischio della “dittatura dell’ignoranza”.
“In Italia vige la dittatura dell’ignoranza”: sono le prime parole del libro “Sotto il segno dell’ignoranza” (Ed. Egea, pagg. 184, € 22) che Paolo Iacci, grande esperto della gestione delle risorse umane, ha dedicato a questo tema. L’autore continua: “Questa è la nuova questione morale del Paese. La classe dirigente ha da tempo abdicato a favore di una orda di incompetenti che stanno occupando i posti di potere e che si approfittano della volontà di cambiamento diffusa nel Paese per occupare indegnamente i principali posti di responsabilità”. Una prassi – smentita solo in parte dalla costituzione del Governo Draghi – che si è prodotta a partire da un modello culturale. Un “modello diseducativo” che si è formato a partire da diversi elementi. Innanzitutto, la trasformazione della famiglia, che da tradizionale-normativo (la relazione affettiva era il mezzo con cui i genitori trasmettevano ai figli i limiti e le responsabilità del mondo adulto, come il lavoro, il dovere e la competenza) passa a materno-relazionale.
A questo si collega anche il ruolo della scuola, che da anni vive un processo di lento, ma progressivo degrado. Incapace di produrre istruzione (basti vedere i risultati dei test Invalsi, che precipitano l’Italia nelle ultime posizioni delle classifiche internazionali) e ancor più scarsa educazione, essa sta perdendo anche la tradizionale capacità di garantire opportunità occupazionali e di funzionare come strumento di avanzamento sociale: l’ascensore sociale si è fermato, l’aver studiato non paga più in termini occupazionali e allora a che serve faticare sui libri?
Lo strapotere dell’ignoranza e dell’incompetenza è poi strettamente connesso con la mancanza di desiderio e con l’assenza di un’idea forte di futuro. La voglia di crescere e di migliorarsi è sempre stata una caratteristica fondante dell’essere umano, ma oggi sembra essersi persa. Il futuro non ci appartiene, si cerca di vivere al meglio il presente, unico ambito che ci è dato. Non a caso si afferma anche la filosofia – se possiamo definirla così – del “presentismo”, cioè la convinzione che esista solo il presente, mentre il futuro e il passato sono irreali. Le entità “passato” e “futuro” devono, quindi, essere considerate come costrutti logici o finzioni.
Un altro elemento fondamentale è infine rappresentato dall’enorme e repentina diffusione di internet: se da un lato la rete offre un’enorme opportunità di sviluppo culturale, aggiornamento, comunicazione, dall’altro favorisce un’informazione veloce e superficiale, che induce alla massima semplificazione del ragionamento. In questo il web (e i social) sembra essere una sorta di amplificazione della televisione. La tv è stata la premessa di quella “iper-democratizzazione” di massa per cui oggi si ribadisce che “uno è uguale a uno”. Dove uno è quello che ha studiato e si è fatto competente, e l’altro “uno” è quello che nulla sa di quanto accade, se non quello che distrattamente trova su Google (“googlare” appunto).
Proseguendo con i social network, dove la logica dell’insulto e del disprezzo sembra accumunare una schiera sempre più grande di quelli che vengono chiamati “i leoni della tastiera”, si scopre una consolidata consapevolezza: l’arroganza e la violenza (verbale e non) sono la più coerente manifestazione dell’ignoranza esibita e vantata. Che nulla a che vedere con la “dotta ignoranza” di Socrate, ovviamente.
Una rinnovata edizione del principio di Peter, secondo cui si viene promossi a sempre più elevati gradi di incompetenza. Con i posti di responsabilità vengono spesso assegnati più in una logica di relazioni che non di effettive capacità. La contiguità con la politica diventa così un lasciapassare più che i titoli e l’esperienza. Chi riesce ad affermarsi per propri meriti viene visto con sospetto come componente di una élite che per sua natura si contrappone alla dimensione popolare.
Una versione aggiornata della cultura dell’anti-casta. La dittatura dell’ignoranza – potremmo dire parafrasando von Clausevitz, ma anche Chu Enlai – è la prosecuzione dell’attacco alle Istituzioni, con altri mezzi.