Alla fine del lockdown – speriamo l’ultimo – ci troveremo con la versione definitiva del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Da qui al 30 aprile leggeremo anticipazioni diverse del Recovery Plan stilato dal Governo Draghi, ma il nodo resterà la capacità di spendere il grande fiume di risorse finanziarie disponibili a Bruxelles. Contrariamente a quanto avremmo pensato fino a pochi mesi fa – diciamo prima della emergenza Covid – il problema non appare più la copertura finanziaria dei progetti – mai come oggi sembrano cospicue le disponibilità finanziarie – ma la capacità di spendere e rendicontare, unica condizione che si frappone all’incasso dei flussi di denaro promessi.
In questa nuova prospettiva c’è da preoccuparsi dei dati offerti in questi giorni dalla Ragioneria generale dello Stato a proposito della nostra capacità di spesa dei Fondi ordinari Ue. Già, perché è giusto rammentare che in attesa del Recovery Plan, sono già cospicue le linee di credito che l’Europa concede attraverso i suoi Fondi strutturali.
Secondo l’ultimo monitoraggio emerge che, a fine 2020, della programmazione 2014-2020 l’Italia ha speso appena il 48,7% su 73,4 miliardi di euro disponibili. Meno della metà del totale disponibile. Troppo poco. Come ricordava Il Sole 24 Ore, l’Italia spende meno “proprio nelle aree che sono considerate più strategiche per rispondere alla crisi e sono messe al centro del Recovery Plan, cioè il contrasto alla povertà, la riduzione dei rischi da cambiamento climatico, il rafforzamento della Pubblica amministrazione”. Mentre l’impegnato è arrivato a poco meno dei tre quarti delle risorse disponibili, la spesa è pari al 48,7% del totale disponibile.
E’ vero che in base alle regole Ue il completamento dei pagamenti è consentito entro il 2023. Ma dall’analisi della programmazione, cioè la ripartizione per gli Obiettivi tematici, emerge il ritardo più significativo alla luce delle sfide imposte dal Recovery Plan. Sia per la quota relativa ai Programmi nazionali sia per la fetta gestita dalle Regioni.
La performance peggiore è realizzata nelle azioni per «rafforzare la capacità istituzionale delle autorità pubbliche e delle parti interessate a un’amministrazione pubblica efficiente», tema al centro della necessaria riforma della Pubblica Amministrazione e in questi giorni di nuovo in evidenza per la firma del Patto per il lavoro pubblico. Tra gli assi prioritari, i fondi 2014-20 puntano alla «modernizzazione della Pa attraverso l’implementazione delle riforme relative agli aspetti gestionali e organizzativi e attraverso la semplificazione dei processi, per la riduzione di costi e tempi delle procedure». Ma l’avanzamento in termini di pagamenti è fermo al 27,9% su 1,4 miliardi.
Si tratta di una incapacità che getta ombre pesanti sui fondi del Recovery Plan. Soprattutto per quella parte che sarà destinata a colmare le diversità territoriali. Francesco Grillo lo aveva rammentato sul Messaggero: “C’è anche l’accordo di partenariato che governerà la spesa dei Fondi strutturali e che per tre quarti saranno spesi nel Mezzogiorno”. Si tratta dei finanziamenti del Programmi operativi regionali (Por) e nazionali (Pon), coperti in buona parte dal Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) e dal Fondo sociale europeo (Fse), sia per quelli in scadenza, per il periodo 2014-2020, sia per quelli di nuova assegnazione, del settennato 2021-2027.
L’ombra è quella di una strutturale incapacità – grande difficoltà, potrebbe essere un eufemismo – a rendicontare e quindi a spendere le risorse disponibili. Problema che in Europa ci pone, da sempre, nelle ultime posizioni. L’Italia è scivolata al penultimo posto (prima era quartultima) nella classifica di spesa dei fondi europei. Questo è il dato che si legge nella Relazione annuale 2019 della Corte dei Conti Europea (European Court of Auditors). La fotografia fatta da Bruxelles, su una “popolazione” europea di investimenti pari a 126 miliardi di euro di cui 28,4 dedicati alla politica di coesione, pone a confronto la performance di spesa degli Stati dell’Unione relativamente agli anni 2012 e 2019, facendo in tal modo una comparazione diretta sulla performance di spesa relativa ai periodi di programmazione 2007-2013 e 2014-2020.
Ancora più indietro la spesa del Fondo sviluppo e coesione (Fsc), messo a disposizione proprio per colmare i divari territoriali: l’80% del Fsc si rivolge al Sud. Qui i numeri appaiono drammatici. Su 47,3 miliardi di risorse programmate, al 31 dicembre 2020 gli impegni sono fermi al 19,3% e, i pagamenti al 6,7%. Non solo. Dei 3,5 miliardi per gli investimenti sulla banda ultralarga, risulta speso lo 0,13 per cento. Insomma proprio i Fondi strutturali destinati alle emergenze più calde del Paese – Pubblica Amministrazione, Sud, innovazione tecnologica – sembrano i meno utilizzati.
C’è da sperare che dall’esperienza negativa certificata in questi anni, possa nascere una propensione solida a invertire la rotta. Quello che ancora non è accaduto per i Fondi strutturali europei, c’è da augurarsi che possa avvenire per le risorse del Next Generation Ue. Facciamoci gli auguri.