Che fine ha fatto la spending review? Per anni è stato il tema su cui politici e giornalisti hanno parlato, a volte a sproposito, fino alla noia. La revisione della spesa pubblica è stata protagonista del dibattito quando il problema sembrava il taglio delle auto blu. Oggi, con un Paese indebitato oltre ogni limite, paradossalmente sembra una questione accantonata.
Dopo un anno e mezzo di sacrifici, di libertà negata, di risorse economiche e finanziarie diminuite, di occupazione in crisi, gli italiani sembrano aver dimenticato che la spesa pubblica – tanto più con l’arrivo delle risorse europee, quasi tutte a debito – deve essere controllata. Ai tempi della spending review andava di moda suggerire la centrale unica degli acquisti a ogni livello della Pubblica Amministrazione. Con una buona dose di ragionevolezza, concentrare acquisti e spese in pochi soggetti deputati, assicurava di spuntare migliori prezzi e maggiore efficienza nel controllo.
Dopo un anno e mezzo di spesa straordinaria, per ammortizzatori sociali, per sussidi di ogni genere, per interventi medico-sanitari eccezionali, come la campagna vaccinale ancora in corso, dovremo tornare a pensare a una dimensione ordinaria di spesa corrente da dedicare a una lunga sequela di interventi, che non sempre hanno a che vedere con il Pnrr. Se per gli asili nido il Piano prevede investimenti per 4,6 miliardi di euro, non è così evidente il cespite a cui riferirsi per assicurare l’aria condizionata nei Tribunali o per ristrutturare caserme e commissariati. Eppure, è esperienza comune che la stragrande maggioranza degli edifici pubblici versi in condizioni pietose: le scuole che dopo tante assenze (giustificate) i nostri figli torneranno a popolare e che tutti frequentiamo quando andiamo a votare, mostrano sempre più spesso un imbarazzante stato di degrado; le aule di tribunale, le sedi in cui operano le Forze dell’ordine, la gran parte dell’edilizia ospedaliera, tutto sembra sull’orlo di una fatiscenza preoccupante. Peccato che tutto questo elenco si scomponga in un numero altissimo di diverse Amministrazioni pubbliche: dagli enti locali (che difficilmente riusciranno a mettere a bando quei 4,6 miliardi scritti sul Pnrr per gli asili nido, per mancanza di personale specializzato nella creazione di bandi adeguati, e per carenza di spazio di indebitamento a bilancio) alle Regioni, dalle diverse amministrazioni della Giustizia a quelle della Polizia di Stato e dell’Esercito. Senza dimenticare, l’attualità ce lo ricorda con drammaticità, l’edilizia carceraria, che vuol dire un’altra Amministrazione ancora.
Possibile che questo vestito d’Arlecchino non possa essere – per un periodo breve ed eccezionale – ricondotto a un’unica regia e controllo? Abbiamo commissariato – con successo – la campagna vaccinale, possibile che non si possano commissariare le procedure di manutenzione dell’edilizia scolastica? Abbiamo visto commissariare – con incredibile insuccesso – l’ordinazione di banchi a rotelle per tutte le scuole d’Italia, possibile che non si possano commissariare le procedure per gli interventi di ristrutturazione delle tenenze dei carabinieri o delle aule di Tribunale?
I quasi ottomila Comuni italiani hanno subito – proprio in nome dell’allora in voga spending review – un depauperamento di risorse di cui ancora mostrano i segni, possibile che dopo il Covid non possano accettare di vedere limitata la loro discrezionalità di scelta per definire una gara per un asilo nido? Avere un commissario per gli asili nido è così insultante per l’orgoglio autonomista dei nostri sindaci? Non credo.
Si è detto spesso che il Covid-19 ci ha fatto toccare le tragedie di una guerra: tanto che il Recovery Plan europeo dovrebbe somigliare a una sorta di Piano Marshall. Nel dopoguerra e con il Piano Marshall avete mai pensato di assistere alla frantumazione di investimenti e procedure, delegando controlli ed esecuzioni ai singoli rappresentanti di migliaia di diverse Amministrazioni pubbliche?
E’ il tempo di sottrarsi al protagonismo e alle bandierine di parte e di campanile. Non è il tempo del particolarismo. La rinascita dei territori, tanto importante nel dopo-pandemia, ha bisogno di un cambio di paradigma “glocal”. Il localismo delle soluzioni deve far spazio al centralismo delle procedure e dei controlli.
Fonte: Libero Economia