Nel tempo della sostenibilità ci stiamo dimenticando dell’acqua. Siamo giustamente preoccupati di definire i passaggi della transizione energetica – con qualche eccesso ideologico, come il Green Deal europeo – ma l’emergenza idrica sembra declassata nell’agenda nazionale. Periodicamente ci ricordano che potremmo farci una doccia in meno, che mentre ci si lava i denti è meglio chiudere il rubinetto, e che magari potremmo risparmiare su qualche sciacquone. Peccato che poi si scopre che il 41,2% dell’acqua potabile viene disperso nella distribuzione (c’è chi corregge la percentuale fornita da Arera anche al rialzo, fino al 47,6%).
Con buona pace del fatto che dieci anni fa un referendum assai politicizzato abbia sancito che l’acqua è un bene pubblico sul quale non si possono fare profitti. Giusto? Forse. Certo è che le principali società di gestione sono quotate in Borsa, quindi i profitti li perseguono, per forza. E non serve dire che sono multiutility o che sono a maggioranza pubblica.
In forza del fatto che “il diritto all’acqua potabile e sicura ed ai servizi igienici” – come sancito dalla risoluzione delle Nazioni Unite del 26 luglio 2010– è “un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani”, e a dieci anni di distanza dal referendum del giugno 2011 può essere utile rilanciare una riflessione, tra pubblico e privato. Perché la promessa “nessun profitto” non solo non sarebbe stata mantenuta, ma secondo chi ha studiato i conti economici dei gestori del servizio, i piani d’Ambito, le tariffe applicate negli ultimi anni in Italia e pagate dai cittadini per utilizzare l’acqua del rubinetto, sarebbe stata addirittura tradita. In un quadro dove l’attore pubblico -in veste di ente locale, azionista delle società o ente regolatore- continua a indossare gli abiti (e i comportamenti) del privato.
L’acqua è rimasto un business, per pochi. E gestito in maniera più che privatistica, da monopolisti di territorio. Senza controlli reali. Se è vero che negli ultimi dieci anni le tariffe del servizio idrico sono aumentate di oltre il 90% a fronte di un incremento del costo della vita del 15% c’è da chiedersi che fine abbiano fatto le risorse prelevate dalle tasche dei cittadini. Certamente non hanno finanziato investimenti produttivi. Solo l’Authority di settore può gongolare per una riduzione della dispersione dal 43,7% al 41,2% in cinque anni. La media europea è del 23%.
In un recente articolo sul Sole-24 Ore Valerio De Molli (The European House – Ambrosetti) ricorda che la capacità di investimento in infrastrutture idriche è in Italia meno della metà di quella europea. E quando decide di trovare risorse le tiene congelate per un tempo che varia dai 5 ai 15 anni. La realizzazione di una infrastruttura idrica richiede 1080 giorni, solo per la progettazione e per passare il vaglio dei 15 interlocutori pubblici, locali e centrali, lungo la linea del processo di autorizzazione.
Se è vero che le opere pubbliche ferme sono una delle principali palle al piede del Paese, con o senza Pnrr, per le opere di infrastrutturazione idrica è vero il doppio.
E’ paradossale quanta distorsione esiste tra i proclami e la realtà dei fatti. Vale per i grandi temi della transizione ecologica ed energetica e vale per l’uso delle parole. La sostenibilità e i suoi aggettivi sono entrati nella nomenclatura di associazioni e di ministeri (l’ultimo sussulto verbale ha riguardato la dicitura del Ministero per le infrastrutture diventato Ministero per le infrastrutture e la mobilità sostenibili), ma quando si tratta di tradurre i proclami in atto ci si scontra con la palude, che di acqua è ricca, ma è acqua sporca.
Possiamo riprendere, con la scuola in presenza, anche il rito del “Fridays for Future”, possiamo scoprire che Greta Thunberg è diventata maggiorenne, possiamo comprare solo auto elettriche (anche l’ibrido ormai è poco), ma non dovremmo abituarci alla lentezza strutturale di un Paese che non decide e quando decide non realizza quello che ha deciso.
Fonte: Libero Economia