Go to the top

Altro che pigrizia: i ragazzi fuggono dall’Italia anche per lavorare di più

Ai giovani italiani non dispiace la competizione. Anzi. Non parlo di Olimpiadi né di ParaOlimpiadi, dove peraltro questo spirito pugnace si è manifestato con soddisfazione. Parlo di lavoro, e di “fuga” all’estero. Una grande fuga che è ripresa massicciamente dopo la fisiologica frenata durante la pandemia. I dati della Fondazione Nord Est, diffusi in questi giorni dal Sole-24Ore, sono espliciti: nel 2022 e nel 2023 quasi 100mila giovani italiani hanno lasciato il Paese, mentre solo poco più di 37mila sono rientrati. Nel medio periodo – i tredici anni che vanno dal 2011 al 2023 – più di mezzo milione di giovani italiani (550mila, per l’esattezza) hanno trasferito all’estero la loro residenza anagrafica. Secondo il report il dato reale è di tre volte superiore – quindi si arriva a 1,6 milioni di giovani italiani che hanno lasciato l’Italia – visto che molti che vanno all’estero non cambiano la residenza.

“Molti hanno cercato migliori prospettive di lavoro all’estero” aveva segnalato il Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, già durante le sue Considerazioni finali a fine maggio: hanno lasciato il Paese “soprattutto i laureati, attratti da opportunità retributive e di carriera decisamente più favorevoli. L’esodo indebolisce la dotazione di capitale umano del nostro paese, tradizionalmente afflitto da bassi livelli di istruzione”.

Diciamolo una volta per tutte: è vero che all’estero le retribuzioni sono più alte, ma è enormemente più alta la produttività. Quindi dire che i giovani vanno all’estero per guadagnare di più è vero, ma sanno benissimo che ci sarà da lavorare molto di più. Senza le reti di protezione tirate nel mercato del lavoro italiano: nei Paesi anglosassoni, e non solo, il mercato del lavoro è più fluido, il licenziamento è una possibilità frequente, così come la possibilità di trovare nuova e diversa occupazione; le assenze non sono tollerate, lo straordinario è ordinario, le ferie non sono il totem al quale sacrificare tutto. La flessibilità è assoluta e la dedizione al lavoro e alla produttività sono il “vangelo”.

Eppure, i giovani italiani non si sottraggono a questa sfida. Anzi, ne sembrano attratti. Non si tratta solo dello spirito di internazionalizzazione che soffia nelle vele dei nostri under 35. C’è lo spirito della competizione, dove il merito non è una parola di moda, ma una condizione insindacabile misurata dal datore di lavoro, che inseguendo il profitto, non ha motivo di compiere scelte che non siano da considerare le “migliori”, o almeno le più opportune.

Piangere per la “fuga” dei cervelli (o dei migliori lavoratori) è inutile, soprattutto se non si colgono alcuni segnali che contraddicono gli ultimi decenni di politiche per il lavoro. Tra “jobs act” e articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, tra causali per le assunzioni e procedure barocche per l’apprendistato i giovani italiani preferiscono la competizione. Vorrà dire qualcosa anche per chi vorrebbe rappresentarli? Sia le organizzazioni sindacali, sia i partiti politici – o quello che ne resta – sembrano intenti a una battaglia di retroguardia, rivolta a garantire diritti (per pochi) senza pretendere doveri (per molti).

Politici e sindacalisti – o almeno molti fra loro – inseguono un mondo che non c’è più e che non è nemmeno desiderato dai giovani italiani che quando si tratta di lavorare preferiscono lasciare il Bel Paese e sfidare il mercato del lavoro (anche un po’ spigoloso) nei Paesi dove la flessibilità ha preso il posto della garanzia.

Già lo scorso mese di luglio un’indagine Ipsos, realizzata per la Fondazione Barletta, emise un verdetto esplicito: più di un giovane su tre (il 35%) è pronto a lasciare l’Italia per andare all’estero.

Le ragioni sono presto dette: migliori opportunità lavorative e stipendi più alti. Insomma, accettare la sfida della produttività – che in Italia resta la grande assente – non spaventa i giovani italiani, che si dimostrano tutt’altro che “choosy”, per dirla con un’espressione che fece tanto discutere una decina d’anni fa, quando a pronunciare la sentenza dei giovani “viziati” fu l’allora ministra del Lavoro, Elsa Fornero. La fuga dei giovani all’estero dimostra che molti dei nostri ragazzi non vogliono essere “viziati”, vogliono emanciparsi e confrontarsi in mare aperto, dando una lezione a chi insegue una contrattazione del lavoro rigida e ingessata, o a chi preferisce elencare le condizioni di anticipo della pensione (per i meno giovani), piuttosto che disegnare un orizzonte nuovo e diverso al mercato del lavoro (soprattutto giovanile).

Fonte: Il Riformista