Ci sono talebani anche nella politica italiana, non da oggi. L’integralismo degli studenti delle scuole coraniche da noi si trasforma in ideologia anti-capitalista di apprendisti stregoni finiti fuori tempo massimo dalla storia, ma coccolati da chi il tempo di pensare e studiare lo ha avuto. Il terreno di scontro di oggi è l’incredibile “bozza” di decreto legge per contrastare la delocalizzazione delle imprese.
Di per sé è incredibile che di una simile “bozza” si discuta da giorni. Il Governo deve governare, non chiacchierare delle sue intenzioni tra un meeting estivo e un’intervista di Ferragosto. La politica economica è una cosa seria, non si addice a dibattiti innaffiati da spritz e mojito (non credo che il cocktail sia un’esclusiva di Salvini). Invece siamo sepolti da chiacchiere. Noi e chi deve e potrebbe investire nel nostro Paese.
Se a chiacchierare sono un ministro e un vice-ministro della Repubblica (nell’ordine, Andrea Orlando e Alessandra Todde, per quanto possa essere incredibile abbinare questi nomi con incarichi di Governo) sembra consentito. Se a farlo è il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, si prende anche le intemerate di un commissario europeo, Paolo Gentiloni, che essendo stato presidente del Consiglio dovrebbe avere acquisito qualche sensibilità istituzionale che alcuni degli attuali ministri devono ancora imparare. Per Gentiloni, Bonomi ha usato “toni eccessivi” e ha fatto “polemiche fuori luogo”. E perché?
Difendere le imprese è suo compito specifico. E la “bozza” diffusa dai due talebani di casa nostra è tutto tranne che rassicurante. E l’intento punitivo è evidente, se si ipotizzano “multe” (poi smentite, ma si sa, le bozze sono fatte per dire tutto e il contrario di tutto) per le imprese cattive. La questione è semplice: si vuole rendere il Paese attrattivo per chi vuole fare impresa, o no? Se si vogliono attrarre investimenti non si deve brandire la clava marxista, prendendola dalla teca dei ricordi di famiglia. Si devono fare riforme. Gentiloni ha avuto un soprassalto di buon senso elencandole: “Riforma della giustizia civile, nuove regole della concorrenza, politiche attive del lavoro”. Appunto, tutto quello che non c’è. E che manca nell’azione del Governo, pur essendo presente nel programma dei Migliori.
Peccato che non tutti al Governo siano “migliori”. Lo si vede anche dalla qualità della scrittura delle “bozze” diffuse. Le aziende con almeno 250 dipendenti dovrebbero prevedere un piano di mitigazione dell’impatto occupazionale. Quelle con 249 dipendenti saranno assolte dall’obbligo? Si faranno imprese da 249 dipendenti. Ha ragione Enrico Carraro, presidente di Confindustria Veneto: “Non è con la paura che si attirano le imprese, ma con le riforme”. Il vero timore è che molti al Governo non vogliano incentivare le imprese; e nemmeno il lavoro.
Luigi Marattin, al proposito, ha detto cose sacrosante. La delocalizzazione si combatte con la competitività dei territori, ma per questo serve una pressione fiscale da ridurre, un capitale umano di qualità e filiere industriali solide. Cioè lavoro, lavoro, lavoro. E non manca la domanda di lavoro: dal turismo alla ristorazione alla logistica è tutta estate che vediamo elencare le richieste senza offerta. Forse è questo il problema prioritario, prima che puntare ai bastoni da buttare nelle ruote delle imprese.
Se questa sensibilità spunta anche nella sinistra (Marattin è un autorevole rappresentante di Italia Viva) possiamo sperare che la maggioranza larghissima che sostiene il Governo se ne faccia carico. Ed è lecito augurarsi che il presidente del Consiglio, impegnato – e giustamente – ad affrontare la crisi dei talebani tagliagole di Kabul, possa mettere attenzione sui pasticci che organizzano i suoi giovani studenti di nostalgie veterocomuniste, solidamente contrarie allo spirito di impresa. Sabino Cassese ricordava che più democrazia vuol dire meno violenza organizzata nel mondo; c’è da credere che più impresa (e più libertà d’impresa) voglia dire più ricchezza e più crescita per tutti.
Fonte: Libero Economia