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Ascoltare le parti sociali è un rito sempre più inutile

Alla Cisl è bastata la convocazione alla Sala Verde per non dare seguito all’annunciato sciopero generale. A Cgil e Uil no. A prescindere dagli esiti dell’incontro promosso da Giorgia Meloni un paio di giorni fa con le tre sigle sindacali – e a prescindere dalla conferma dello sciopero proclamato da Cgil e Uil contro la manovra del Governo – stiamo assistendo al solito rituale. Si chiamava concertazione ai tempi di Ciampi e secondo la vulgata riproposta dal Governo Draghi, ora con il Governo della “discontinuità” politica forse l’evento non ha più nome, ma sa di antico.

Le parti sociali vengono convocate e ascoltate – ascoltare fa bene sempre – ma sarebbe utile sottolineare che negli ultimi tempi non ne hanno azzeccate molte. Era stato annunciato che l’occupazione sarebbe scesa ai minimi storici e invece ci accorgiamo – dati alla mano – che siamo al record (60,5%) degli ultimi 45 anni. L’Istat lo ha certificato pochi giorni fa. Possiamo fare tutti i distinguo del caso – prevalgono i contratti a tempo determinato, il lavoro giovanile non cresce, ecc. – ma siamo di fronte a dati e dinamiche che confermano la discreta tenuta del sistema italiano, dove certamente i problemi non mancano, ma che si sta dimostrando in grado di rispondere meglio del previsto alla crisi di questi mesi. Il direttore del Foglio, Claudio Cerasa ha detto giustamente che si tratta di una “non notizia” per l’industria del catastrofismo.

A ciascuno è lecito pensarla come gli pare, ma quanta credibilità hanno coloro che continuano a fare previsioni smentite dai fatti? È lecito ascoltare e convocare tutti quelli che si crede opportuno sentire e incontrare, ma per sapere che cosa, se quello che viene previsto è quasi sempre sbagliato?

Il dilemma non è di poco conto. Da un lato sentiamo con chiarezza di avventurarci in una società liquida, disintermediata, dove la foresta digitale dei like fa molto più rumore di un albero vero con qualche frutto sui rami. La disintermediazione non ha il potere di annullare il dato della realtà, che è fatto di solidarietà, di comunità, di relazioni. Ma dall’altro lato chi vuole e pretende di rappresentare questa realtà incomprimibile dovrebbe piegarsi alle sue condizioni. I dati, si sa, sono testardi. E chi esercita la rappresentanza – i corpi intermedi, le parti sociali – non può negarli.

I rituali incontri nella Sala Verde di Palazzo Chigi che cosa rappresentano? Soprattutto: chi rappresentano? Il rischio della somma di semplici personalismi è altissimo. I rappresentanti delle Istituzioni (almeno di quelle parlamentari) vivono ancora – per fortuna – del bagno elettorale: anche laddove i partiti si sono dileguati restano le vestigia delle urne (più o meno frequentate dagli elettori). Invece la gran parte delle associazioni si consumano senza verifiche. O peggio, si riducono al personalismo in voga tra i partiti. O addirittura a un familismo (quasi tribale) intollerabile ormai anche nella più conservatrice Pmi.

Dal canto loro le organizzazioni sindacali da anni si sottraggono a una meticolosa conta degli iscritti. Una delle ultime “autodichiarazioni” indica in poco più di 11 milioni gli iscritti alle tre confederazioni maggiori, Cgil, Cisl e Uil. Più della metà sono pensionati. Quindi non più di 5 milioni di lavoratori sembrerebbero (condizionale d’obbligo in assenza di una certificazione terza) avere in tasca la tessera sindacale. Circa un quarto dei lavoratori dipendenti. È sufficiente per “rappresentare” il mondo del lavoro a Palazzo Chigi?

Il problema della rappresentanza riguarda anche Confindustria, sempre più “rappresentante” delle aziende statali, sempre meno dell’imprenditoria privata, media, piccola o piccolissima. Non si tratta di abbattere il sistema delle relazioni industriali, ci mancherebbe, ma di ricomporlo nella realtà dei fatti.

Fonte: Libero Economia