Una recente inchiesta sull’inefficienza dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati ha illuminato un’altra cattiva prova del trasferimento di competenze al territorio. Decine di migliaia di beni sottratti alle organizzazioni mafiose o a singoli personaggi di malaffare, finiscono per restare inutilizzati, fino al loro degrado. Milioni di euro di patrimonio vanno in fumo per l’incapacità di gestirlo. Immobili di pregio inutilizzati, strutture economiche abbandonate, imprese lasciate fallire. Perché? Per due motivi. Il primo la lentezza dei processi che fanno passare anni tra il sequestro e la confisca, costringendo nel limbo del mancato uso centinaia di beni preziosi. Il secondo riguarda una improba sfida nella gestione affidata agli Enti locali, cui spesso si affidano i beni, senza adeguate risorse e competenze.
Per anni si è parlato di decentramento, quando il “localismo” era targato Pci. Poi, col tempo, è prevalsa la parola “autonomia”, quando il federalismo (di stampo leghista) ha avuto il suo lungo quarto d’ora di popolarità. Autonomia, peraltro, è il sostantivo utilizzato dalla carta costituzionale, quando si afferma che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci”. Si è fatta largo la parola “sussidiarietà” – dal lessico della cooperazione sociale – e quindi “devoluzione”.
Si sono consumati anche dei referendum popolari che hanno sancito la voglia di autonomia (differenziata) di almeno tre Regioni italiane (Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna). Un percorso incompiuto, come tanti di quelli avviati nella storia della nostra Repubblica, in quel passaggio disordinato tra la Prima e la Terza. Dopo la riforma del Titolo quinto della Costituzione siamo rimasti in mezzo al guado. Fino a quando, con il Governo Monti – a torto o a ragione – il pendolo ha ripreso a piegare verso il centralismo. Allora l’urgenza era la spending review e i tagli alle spese e ai bilanci delle Amministrazioni pubbliche (e gli Enti locali hanno pagato spesso il conto anche della Pubblica Amministrazione centrale). Poi c’è stata la pandemia. Ora la crisi energetica aggravata dalla guerra. Si è ripassata una lezione antica: i conti si controllano meglio al centro.
La prova dell’autonomia non ha mai convinto appieno. Il federalismo di Cattaneo è rimasto nei libri di storia. E quando si tratta di toccare con mano, si misura l’inadeguatezza della gestione locale di troppe partite. Dalla sperequazione nel Sistema sanitario all’inefficienza dei Centri per l’impiego affidati alle Regioni. Fino alla recentissima incapacità di spendere i soldi del Pnrr quando si tratta di progetti affidati ai Comuni. Intendiamoci, non è insipienza dei sindaci e degli amministratori locali, ma un inadeguato trasferimento di compiti e di competenze, senza un altrettanto adeguato percorso formativo delle risorse umane e senza una opportuna dotazione finanziaria per gestire il particolare.
Il risultato: più di un terzo dei beni confiscati finisce per essere inutilizzato e inutilizzabile. Solo il 61% del totale delle confische è stato trasferito con successo agli enti locali. Trecento milioni dei fondi del Pnrr dovrebbero essere destinati a progetti di ristrutturazione degli immobili confiscati. Buona cosa, a condizione che vengano spesi bene. Non sarebbe più semplice dotare le Amministrazioni di un percorso privilegiato per vendere (o svendere) questi beni al miglior offerente? C’è il rischio di ritrovare sotto mentite spoglie i vecchi proprietari? Lo si deve evitare. Così come si deve evitare che milioni di euro di patrimonio vadano in fumo per una cattiva prova di amministrazione.
Fonte: Libero Economia