La repentina fine della legislatura ha finito per mettere in ombra un episodio che avrebbe, credo, meritato una visibilità e una riflessione meno frettolosa. L’epilogo giudiziario del caso Eni-Descalzi, concluso con la rinuncia all’appello da parte della Procura Generale di Milano, ha segnato una discontinuità con la “tradizione” giustizialista. Un episodio che avrebbe potuto far meditare magistrati, politici e giornalisti italiani, o almeno quella gran parte di loro che da Mani pulite hanno amplificato il tintinnio delle manette, a prescindere dalle ragioni e dalle colpe.
La Procura generale di Milano, all’avvio del processo di secondo grado sulle presunte tangenti Eni e Shell in Nigeria, ha presentato la rinuncia all’appello contro la sentenza del Tribunale che aveva assolto le due società e tutti gli imputati, fra i quali l’ad di Eni, Claudio Descalzi. La sostituta procuratrice generale, Celestina Gravina, ha presentato l’atto di rinuncia che apre le porte all’assoluzione definitiva.
La Procura generale ha deciso di sottrarsi a un accanimento forcaiolo smontato dal Tribunale di Milano che lo scorso mese di marzo aveva assolto “perché il fatto non sussiste” le due società e tutti gli imputati fra i quali Descalzi, l’ex ad di Eni, Paolo Scaroni, e quattro ex dirigenti di Shell, dall’accusa di aver pagato un miliardo di dollari di tangenti.
Si dirà che si tratta di rapporti tra magistratura e finanza (ed economia) ma quando si parla di Eni la politica c’entra, eccome. Si tratta di manager di Stato che vengono scelti e supportati – non sempre, talvolta a intermittenza – dalla politica e dai politici governanti di turno. Grand commis d’Etat? In qualche modo sì, e ai massimi livelli. La politica estera dell’Italia è in gran parte condotta e guidata dalle scelte delle grandi imprese pubbliche come Eni o Enel, soprattutto in questi anni di sempre più drammatica e irrinunciabile transizione ecologica ed energetica.
Non solo. La politica c’entra, eccome, proprio per il ruolo innegabilmente politico che la Procura di Milano almeno da trent’anni (da Mani pulite in poi) e la magistratura italiana nel suo complesso ha “voluto” (qualcuno vorrebbe dire: “dovuto”, ritenendo i giudici dei volenterosi supplenti di una classe politica da archiviare, con le buone o con le cattive) svolgere. Con la decisione della Procura generale di Milano è stato certificato che i Pm possono avere torto e la loro volontà persecutoria è quella codificata dalla famosa frase di Piercamillo Davigo: «Non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove». Il teorema vale anche per i top manager e i grand commis di Stato.
La questione inevitabilmente, inutile negarlo, echeggia nella biografia di chi scrive. A differenza di Descalzi, difeso a spada tratta dai politici di turno, è capitato spesso che sia bastato un avviso di garanzia e una indagine senza processo (o un processo senza condanna) a vedere la politica abbassare il capo dinnanzi alla perversa relazione magistratura-media, dove gli indagati diventavano automaticamente colpevoli.
La reputazione degli indagati non difesi – Descalzi fa parte fortunatamente di un club di “mosche bianche” per via della difesa che ha avuto dalla politica da Renzi in poi – è irrimediabilmente compromessa, senza che lo sia quella dei giudici che hanno sbagliato e dei politici che hanno preferito offrire in pasto qualche vittima al populismo che poi tanto spesso condannano.
Con il caso Descalzi-Procura generale di Milano è finito un malcostume? Ci piacerebbe credere di sì, ma temiamo che resterà un episodio. I cattivi politici hanno bisogno di cattivi magistrati e tutti e due contano su giornalisti disposti a tutto, tranne che a credere che le persone sono innocenti fino al terzo grado di giudizio.
Fonte: Espansione