Difficile dare torto a Filippo Patroni Griffi. In una intervista al Sole-24 Ore il presidente del Consiglio di Stato, a proposito della fioritura di commissari straordinari per le Grandi opere (30 commissari per 59 Grandi opere) sostiene una verità lapalissiana: “Se voglio generalizzare un modello derogatorio tanto vale fare una procedura semplificata ma ordinaria”.
Se le regole vigenti si dimostrano inadeguate e si pensa di sospenderle per alcuni interventi straordinari, ma questa straordinarietà diventa così insistente e ripetuta, tanto vale cambiare la norma. Giusto. Il pensiero va al Recovery Plan: “Non si può pensare di attuare il piano con commissari e procedure straordinarie”. E qui l’autorevole opinione di Patroni Griffi si espone a qualche considerazione aggiuntiva. Se in via ordinaria l’Italia non riesce a spendere nemmeno i Fondi strutturali europei, come può pensare di consumare i 209 miliardi del Next Generation Ue? Faremo in tempo a modificare le norme per rendere la macchina adeguata alla corsa che ci attende?
Stando a vedere la super-maggioranza che accompagna il cammino del Governo Draghi potremmo immaginare una risposta positiva alla questione. Ma c’è da fidarsi? Il Governo Conte bis ha impiegato sei mesi per dare attuazione al Decreto Semplificazioni, stilando l’elenco dei 30 commissari solo quando è stato sotto schiaffo di Renzi. Poi è andata come è andata. La lista non è bastata a evitare la crisi e la caduta del Governo. Ma resta il nodo: si può procedere alla realizzazione delle Grandi opere?
L’ultimo Rapporto annuale di Ey, “A new brave world”, ribadisce una diffusa consapevolezza: risollevare l’economia mediante ingenti investimenti in grandi opere strategiche nel comparto delle infrastrutture è decisivo per la ripresa dell’economia. “Si calcola infatti che ogni euro speso nel settore si trasformi in 2,5 euro di Pil nel medio periodo. Si stima che le risorse del Recovery Plan possano consentire un incremento di circa il 25% della spesa pubblica per investimenti nei prossimi 5 anni, con un impatto annuo pari a circa lo 0,5% del pil dell’anno 2019. D’altra parte, la vera sfida è creare le condizioni affinché queste risorse possano efficacemente mobilitare e aggregare anche un volume crescente di risorse private”. Le analisi di Ey stimano un valore compreso tra i circa 150 e 200 miliardi di euro di investimenti complessivi in infrastrutture nei prossimi cinque anni che le risorse addizionali del Recovery Fund potrebbero mobilitare, con un impatto annuo pari al’1,8% del Pil del 2019.
Non si discute sulla necessità e urgenza degli investimenti in Opere pubbliche. Si deve discutere invece del modo in cui si riesce a investire e spendere queste risorse. Il modello Genova, dopo la tragedia del crollo del ponte Morandi, ha funzionato. E’ un’eccezione o è una modalità ripetibile per il bene del Paese anche in altre circostanze meno tragiche, ma pur sempre essenziali per lo sviluppo?
La domanda è banale. Ma la risposta stenta a imporsi. Ci si chiede se il Codice degli appalti sia il problema. Ci si chiede se la burocrazia abbia responsabilità proprie o tutte derivanti dall’incertezza della politica e dalla confusione delle regole vigenti. Ci si chiede se la strada dei commissari debba restare un’eccezione o debba suggerire nuove norme.
Ma non si può più aspettare. Il Decreto Semplificazioni è del luglio scorso. Il Codice degli appalti è stato snellito. Abbastanza? Il testo rimanda al vecchio sblocca Cantieri che introduce – non più in deroga come è stato fatto per il nuovo ponte di Genova – la figura dei commissari per accelerare l’iter di realizzazione delle opere. Ma forse bisognerebbe aprire un canale stabile di comunicazione con le Regioni, al posto di quella trincea di diffidenza che è stata creata. C’è bisogno della massima convergenza possibile da parte delle comunità locali. Per questo non conveniva nominare tra i commissari anche qualche sindaco o governatore di regione? A Genova, col sindaco Marco Bucci, ha funzionato. Perché non replicarlo?
Le possibilità di sviluppo economico e sociale del Paese passano, secondo le analisi di EY, anche dalla qualità del sistema infrastrutturale nel suo complesso che, allo stato attuale, è una conseguenza diretta dei limitati investimenti effettuati negli ultimi anni. Seppure non esista un dato puntuale sulla spesa complessiva per infrastrutture in Italia, gli investimenti totali nel settore sono passati da circa 110 miliardi di euro del 2014 a circa 133 miliardi di euro del 2019, con un tasso di crescita annuale del 3%. L’incidenza di tali investimenti sul prodotto interno lordo in Italia è cresciuta dal 6,8% del 2014 al 7,5% del 2019, segnando comunque una certa distanza rispetto ad altre economie europee: Germania e Spagna sono infatti a circa il 9% e la Francia arriva all’11%. In questo orizzonte temporale la spesa pubblica in infrastrutture si è attestata intorno al 2% del pil, a fronte di una media Eu di circa il 2,9%. Appare quindi evidente, secondo il panel di economisti, professori ed esponenti delle istituzioni riuniti al tavolo da EY, come la ripartenza post Covid-19 richieda interventi urgenti per garantire il mantenimento di adeguati livelli di competitività del Paese, mediante un piano straordinario di investimenti infrastrutturali che tenga conto di specifiche considerazioni di natura finanziaria sull’uso delle risorse pubbliche e private e di come la crisi in atto abbia reso evidente la necessità di ripensare fabbisogni e priorità.
A questo punto servono commissari o nuove norme? L’importante è che ci faccia presto.