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Comuni in affanno col Pnrr. Ma perché non utilizzano il supporto di strutture private?

In una recente nota dell’ufficio parlamentare di bilancio (Upb) i Comuni italiani risultano essere i più numerosi enti attuatori di progetti finanziati dal Pnrr. Ne sono stati contati 101.936, che in termini di finanziamento valgono circa 40 miliardi di euro, di cui 33 derivanti direttamente dal Pnrr.

Questa frammentazione sembra uno dei motivi più ricorrenti della mancata (o ritardata) attuazione del programma. Ed è uno dei motivi per cui il Governo Meloni ha chiesto e ottenuto la rimozione di alcuni degli investimenti che prevedevano l’attribuzione delle risorse del Pnrr attraverso bandi pubblici ai quali i Comuni possono partecipare presentando i propri progetti. C’è un difetto di capacità amministrativa. E in fondo non c’è da stupirsi. Sui 7900 Comuni italiani 5500 (il 70% del totale) hanno meno di 5000 abitanti. Gli uffici amministrativi sono commisurati, per numero di risorse umane e per qualità di competenze professionali, alle normali attività di un “piccolo” Comune, che spesso non è nemmeno in grado di assicurare una mensa scolastica o un asilo nido, se non in consorzio con altri enti locali.

Le amministrazioni municipali, in particolare le più piccole e periferiche e quelle del Sud del Paese (dove la percentuale dei “piccoli” Comuni, quelli con meno di 5000 abitanti, è di oltre l’80%), spesso non hanno nel loro organico le competenze necessarie alla gestione di questi processi amministrativi complessi.

Un paradosso: gli enti locali continuano ad avere un ruolo di primo piano sia nella presentazione delle proposte che nella realizzazione delle opere stesse, oltre a essere responsabili del controllo sulla regolarità delle procedure, ma non sono in grado di assicurare l’iter amministrativo ed esecutivo dei progetti.

Piccolo è bello, ma non sempre efficiente. Con buona pace del localismo e di una malintesa autonomia amministrativa, che è buona cosa se limitata alle dimensioni dei progetti che si possono realizzare.

E non sembra una grande idea quella di ricorrere a una integrazione straordinaria del personale amministrativo. Il Dl 80/2021 dispone la possibilità di disporre assunzioni a tempo determinato per integrare tecnici e personale amministrativo all’interno dei Comuni, per il periodo di attuazione dei progetti finanziati dal Pnrr. Sono anche compresi dei servizi di assistenza tecnica, ovvero task-force su supporto di natura tecnico-specialistica da parte di società a prevalente partecipazione pubblica. Inoltre, sempre il Dl 80/2021 prevede 1.000 incarichi di collaborazione per professionisti esperti per la gestione delle procedure complesse legate all’attuazione del Pnrr.

Ma ne vale la pena? Si manifesta anche in queste circostanze quella idiosincrasia del pubblico nei confronti del privato. Non sarebbe più semplice che i Comuni potessero dotarsi dei servizi offerti da strutture private per adempiere alle temporanee e straordinarie esigenze amministrative connesse al Pnrr? Almeno per tre motivi. Primo per non appesantire l’organico dell’ente: e molto spesso gli incarichi a tempo li vediamo trasformati in tempo indeterminato. Secondo: non ci sono nemmeno gli spazi negli uffici comunali dei piccoli Comuni per offrire scrivanie, computer e sedie per i nuovi assunti. Terzo: le competenze non si formano in poco tempo, si rischia di avere la “macchina burocratica” pronta quando ormai non serve più. La lezione degli ospedali Covid realizzati solo quando la pandemia si è esaurita dovrebbe essere una lezione da cui imparare qualcosa.

Il privato, se guidato e controllato è una risorsa per la collettività e quindi è un partner efficiente per il pubblico. Il partenariato pubblico-privato altrimenti rischia di restare un titolo di qualche convegno ma soltanto una chimera.

Fonte: Libero Economia