“Mi spiace, ma siamo in smart working”. E’ una frase che spesso abbiamo sentito ripetere in questi mesi per giustificare qualche inadeguatezza del servizio in troppe Pubbliche Amministrazioni. Intendiamoci, di fronte all’emergenza sanitaria è stato inevitabile proteggere al meglio i lavoratori, sia nel pubblico, sia nel privato. Una richiesta di prestazione che si incaglia, una domanda che si perde, una documentazione che non viene trovata: in tempi eccezionali può succedere. Anche perché, nonostante le etichette di “smart working”, ci siamo dovuti adattare alla ben e meglio a un semplice e abborracciato lavoro da remoto.
Se spesso il surrogato del lavoro intelligente si è tradotto in un super lavoro (e sempre disagevole) per molti dipendenti di aziende private, per molte Pa, invece, si è trattato di una resa incondizionata all’improvvisazione; senza disposizioni chiare, senza strumenti sicuri, senza connessione adeguata. In un contesto lavorativo che spesso si sviluppava tra il frigorifero e il seggiolone del bambino. Di certo cittadini e imprese lo hanno pagato in termini di efficienza, già non sempre ottimale negli uffici delle Pa. Anche per questo sembra lunare il dibattito scatenatosi contro la sollecitazione sacrosanta del ministro Renato Brunetta al ritorno in ufficio per i dipendenti pubblici.
Al netto delle tante buone ragioni, una è essenziale: ha senso parlare di smart working solo quando il servizio potrà essere migliorato. Il lavoro deve produrre efficienza e soddisfazione del cittadino-cliente.
L’autoreferenzialità che caratterizza spesso una certa cultura sindacale del pubblico impiego deve essere definitivamente accantonata. Tutti i supporti tecnologici devono poter essere gestiti e fruiti. Quando il dipendente pubblico potrà lavorare in smart working – quello vero, quello intelligente, frutto di una profonda riorganizzazione del lavoro e della cultura del lavoro – ci sarà poi da chiedersi se e come il cittadino potrà essere messo nelle condizioni di essere servito da remoto. La digitalizzazione e la dematerializzazione offrono le premesse per una rivoluzione che deve essere trasferita all’utente. Ma a quel punto, con una Pa pienamente digitalizzata e un’utenza in grado di fruirne i servizi con vantaggio, che fine faranno gli intermediari accreditati?
Non parliamo di soggetti marginali. I Centri di assistenza fiscale (i Caf) e i Patronati intermediano circa il 90% delle attività di relazione tra cittadini e Pa. E costano alla collettività circa 700 milioni di euro l’anno. Tanto? Poco? Certamente troppo, quando il lavoro delle Pa e la loro fruizione saranno completamente digitalizzati e quindi organizzabili da remoto in modalità smart o agile, che dir si voglia. La legge n. 152/2001 ha sancito che gli Istituti di patronato sono «persone giuridiche di diritto privato che svolgono un servizio di pubblica utilità». Ma quando venisse meno la pubblica utilità – perché garantita dalla nuova organizzazione smart e dalla fruizione altrettanto smart dei cittadini – sarebbero scatole vuote. E assai costose.
Oggi continuano a vivere in un limbo protetto e poco trasparente. Giuliano Amato nel 2012 venne incaricato dal Governo Monti di una ricognizione del sistema. Riducibile? Il resoconto fu prudente, nonostante informazioni privilegiate raccolte nelle Pa più servite dagli intermediari (Inps, Agenzia delle Entrate e Inail). Nessun taglio. Tutto fermo. Ci provò Renzi a ridurre le risorse, salvo poi fare retromarcia. L’ultimo rapporto ministeriale (2020, relativo all’anno 2018) denuncia una costante inefficienza delle ispezioni, alla cui risultanza dovrebbe essere collegato il finanziamento dei Patronati.
Già si può udire il clangore delle armi da guerra che verranno impugnate per difendere Caf e Patronati, nell’ipotesi di una revisione dei rapporti, derivante da una nuova organizzazione (smart) del lavoro nella Pa. Ci sarà sempre chi vorrà difenderne il lavoro anche quando si sarà rivelato utile solo all’intermediario.
Fonte: Libero Economia