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Concessioni pubbliche, ora servono controlli fiscali. La politica abbia coraggio

Il recente sciopero (o serrata? o interruzione di pubblico servizio?) negli stabilimenti balneari ripropone l’incredibile braccio di ferro tra una corporazione italiana e l’Europa, tramite il benevolo indecisionismo del Governo e delle Istituzioni di casa nostra. Ma non è l’unico aspetto di un problema che, in verità, riguarda altre piccole (numericamente parlando) “caste” di concessionari pubblici. Balneari e taxisti sono spesso evocati per la stessa questione: una incomprensibile resistenza alle regole del mercato. Per i primi attraverso la negazione di ogni gara per l’assegnazione della concessione; per i secondi la feroce opposizione all’aumento delle licenze e all’ingresso di nuovi operatori.

Tutto in barba alle regole europee, che l’Italia guarda a intermittenza; mostrando di gradirle quando fanno affluire decine di miliardi – come per il Pnrr – e invece opponendosi strenuamente quando si tratta di piegarsi alle sacrosante regole della concorrenza.

Ma come dicevo non si tratta dell’unica questione di rilievo. Da anni i fornitori della Pubblica Amministrazione sono sottoposti a una lunga serie di verifiche, prima di poter essere ammessi al mercato della Pa, e prima di poter vedere saldate le loro fatture. Viene chiesto – e giustamente – ogni documento utile a provare la regolarità contributiva e fiscale. Sul fronte dei contributi ci si affida al cosiddetto Durc, emesso dall’Inps (e dall’Inail) che verificano il regolare pagamento dei contributi previdenziali obbligatori per i dipendenti delle imprese che si candidano a fare da fornitori della Pa, o il regolare pagamento dei contributi obbligatori da parte dei liberi professionisti presso le relative Casse di appartenenza.

La verifica della regolarità fiscale spetta ovviamente all’Agenzia delle Entrate. In questo caso è più evidente il rischio di una congruità formale che fa a pugni con una conclamata percezione di evasione. E non si tratta di elucubrazioni complesse. Con l’autorevolezza della Bibbia – come suggeriva una pubblicità di qualche anno fa – dei commercialisti (e non solo) il Sole-24 Ore in questi giorni ha ricordato che “dall’incrocio delle dichiarazioni dei redditi, dei ricavi e delle spese per le categorie dei tassisti e dei balneari i numeri non pareggiano”.

La questione è semplice e di buon senso, seguendo le tracce del ragionamento dal primo quotidiano economico-finanziario del Paese: l’utile netto, medio, di uno stabilimento balneare viene indicato in circa 20mila euro l’anno. Se non ci fosse una solida quota di nero, a integrazione dei numeri dei bilanci ufficiali, che senso avrebbe l’opposizione alle gare pubbliche? Dove si guadagna così poco, che senso ha sottrarsi al libero mercato?

Lo stesso si può dire per i taxisti: come si possono ammettere valori commerciali delle licenze nell’ordine delle decine di migliaia di euro, quando le dichiarazioni medie dei titolari delle licenze è di poco superiore a 15mila euro?

Non si tratta di denigrare delle categorie – si potrebbe allargare la riflessione a gran parte delle attività commerciali, ma per ora mi limito alle attività commerciali che dipendono da una concessione o licenza pubblica – ma di prendersi sul serio.

Mettere la testa sotto la sabbia è una propensione diffusa in Italia. E quando qualcuno osa alzarla, la testa, c’è sempre chi è pronto a mozzargliela, in nome di un insano quieto vivere, o di una strumentalizzazione di lobby e lobbisti.

Cito un caso personale, non per vantarmi – in verità mi piovvero critiche feroci e sguaiate da sindacati e da molti politici – ma per indicare una possibilità: durante gli anni della mia presidenza, l’Inps ingaggiò una battaglia senza quartiere contro i truffatori delle pensioni di invalidità. I “falsi invalidi” vivevano (sono tornati a vivere?) in un limbo sottratto a ogni controllo preventivo e successivo alla concessione del beneficio. Bastava chiedere. Circa un milione di invalidi venne chiamato a visita, creando qualche fastidio alle tante persone oneste di cui per fortuna l’Italia è ancora ben fornita, e circa 250mila venne verificato come “falso invalido”.

Gli enti pubblici hanno il dovere di erogare le prestazioni, tanto quanto quello di assicurarsi che tali servizi vengano usufruiti solo da coloro che hanno bisogno e diritto. L’attività ispettiva non può essere vista come odiosa, perché è uno dei modi per evitare spreco di risorse pubbliche. Si è potuto smascherare il 25% degli invalidi civili, una decina d’anni fa, grazie alla determinazione, alla competenza e alla collaborazione tra soggetti diversi, tra Inps, Asl e Forze dell’ordine. Possibile che lo stesso non possa verificarsi anche sul fronte del Fisco? Cominciamo a fare controlli fiscali seri a chi gode di una concessione pubblica. Sono poche migliaia di persone in tutta Italia; molti meno dei “falsi invalidi” di qualche anno fa.

Fonte: Il Riformista