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Concorrenza, una parola che spesso resta sulla carta

Concorrenza, una parola che spesso resta sulla carta

Si parla spesso di privatizzazioni, ma sarebbe meglio dire “liberalizzazioni”.

Sono la condizione per rendere più moderno il nostro Paese e il suo mercato. Qualcuno direbbe: “L’Europa lo vuole”. Si potrebbe dire che lo vogliono anche gli italiani, che vorrebbero godere degli effetti positivi di una sana concorrenza. Ecco: concorrenza. Parola evocata spesso e sempre rimasta sulla carta. Come nel Ddl approvato dal Governo Draghi e ratificato all’inizio di dicembre con la firma del Presidente Mattarella.

Anche se alcuni dei nodi più spinosi rimangono fuori dal provvedimento: balneari, ambulanti e notai, infatti, saranno affrontati più in là nel tempo. Perché Mario Draghi lo ha detto chiaro e tondo: “La legge che ci apprestiamo a varare dovrebbe avere natura annuale”.

Una concorrenza a scartamento ridotto. Che non è quello che ci chiedeva l’Europa e non è quello che serve agli italiani. La direttiva Bolkestein – per liberalizzare il mercato delle licenze balneari e degli ambulanti – presupponeva un mercato vero, che l’Italia al momento non ha. E non avrà ancora per molto.

Questa carenza di mercato è curiosa se benedetta da una persona come Mario Draghi e che dell’Europa, delle sue regole e delle sue opportunità sa tutto. Ma sembra che agli italiani si debba concedere un mercato in formato ridotto, per assicurare benefici ai soliti noti.
Sia che si tratti dei gestori degli stabilimenti balneari, sia che si tratti delle aziende che erogano servizi di pubblica utilità sul territorio locale. Anche in questo caso le barriere al mercato resistono per assicurare benefici ai politici e ai sindacalisti e non ai cittadini utenti dei servizi. Potremmo dire che dal sonno delle liberalizzazioni si generano mostri. L’ultimo è quello partorito a Roma, dall’Ama, la società pubblica che nella Capitale si occupa anche della nettezza urbana.

L’emergenza rifiuti, esplosa per l’ennesima dimostrazione di inefficienza dell’Ama e per l’assenteismo dei suoi dipendenti, è stata affrontata definendo uno scandaloso contratto “anti-assenteismo” che garantisce bonus e incentivi in cambio della presenza al lavoro.

Invece che predisporre controlli medici sui lavoratori assenti – e sui medici che dovessero prescrivere generose diagnosi di indisposizione – si mette mano al portafoglio: un mese e mezzo di lavoro ordinario valgono da 200 a 360 euro in più.
Gli oltre settemila dipendenti di Ama – un numero tutt’altro che modesto per l’attività richiesta – registrano da sempre un assenteismo da record. Il tasso di assenze nel 2020 ha toccato livelli mai visti: 20,3% di forfait nel primo trimestre (ferie escluse, ovviamente), un altro 20% nel secondo trimestre, poi una lieve flessione durante l’estate, e di nuovo su fino al 18% abbondante al termine del 2020.

Ama ha il doppio dell’assenteismo delle municipalizzate in Italia, ma invece di contrastare il fenomeno si decide di dare un premio per far fare ai dipendenti quello che dovrebbero già fare a termini di contratto. Quattro anni fa l’assessore alle Partecipate della Giunta Raggi, Massimo Colomban, aveva quantificato in 1.800 su 7.500 il numero di dipendenti inabili al lavoro in Ama. Se fosse stato vero, perché sono ancora in servizio?

E’ appena il caso di ricordare che alcuni dipendenti dell’azienda sono stati rinviati a giudizio per una presunta truffa su “false cremazioni”, e altri invece sono stati denunciati, essendo stati scoperti a forzare gli impianti di rifornimento nelle officine e nei depositi dell’azienda, rubare carburante, riempire taniche e usarlo per le proprie auto o venderlo. Questo è il panorama delle relazioni in azienda.

Potrebbe anche scatenarsi uno sgradevole effetto domino. La strategia adottata all’Ama, oltre a suggerire un’indecente gestione del servizio, rischia di essere un cattivo esempio per altre società “municipalizzate”: gli 11mila dipendenti di Atac, perché non dovrebbero chiedere un analogo trattamento?

Fonte: Espansione