L’Italia è un Paese fragile. Almeno in tre quarti del territorio c’è un rischio sismico più o meno accentuato; e per almeno un terzo c’è rischio idrogeologico, come sostengono gli ultimi rapporti Ispra, che indicano il tasso di pericolosità idraulica aumentato quasi del 20% in soli quattro anni. Il cambiamento climatico in corso è evidente, e se non influisce sui terremoti certamente accentua il rischio di alluvioni, frane e smottamenti. Poco importa a questo punto disquisire sulle cause di questo mutamento: colpa dell’uomo? Colpa della natura che ciclicamente modifica le sue condizioni sul nostro Pianeta? Di certo c’è una responsabilità nel non provvedere a una razionale gestione del rischio, con opere di prevenzione, con monitoraggi costanti, con interventi di antropizzazione controllati.
Secondo l’European Severe Weather Database, “nell’ultimo decennio, gli eventi meteorologici estremi in Italia, tra cui forti piogge, grandine e tornado, sono più che quadruplicati da 348 nel 2011 a 1.602 nel 2021”. Il rapporto “Sigma Natural catastrophes” sottolinea che alluvioni e frane si verificano in Italia più frequentemente di qualsiasi altro pericolo naturale. Le regioni italiane più esposte sono la Liguria nord-occidentale e la Pianura Padana, quindi Piemonte, Emilia Romagna e Veneto. “Ma il rischio alluvione riguarda praticamente tutte le regioni, Sicilia e Sardegna comprese” si legge nel Rapporto. Oltre che sulla vita delle persone questi fenomeni hanno un enorme impatto sul piano economico. Sempre secondo il rapporto Sigma in Italia, le perdite economiche totali causate dai disastri naturali sono pari a 58,1 miliardi di dollari.
Sappiamo tutto. C’è un rischio diffuso e accentuato. Per paradosso ci sono risorse finanziarie disponibili per interventi preventivi e per un controllo continuativo, ma come al solito non vengono utilizzate. Solo nel Pnrr ci sono circa 15 miliardi riconducibili a progetti di tutela del territorio. Il timore è che finiscano come quelli negli anni passati, stanziati ma non spesi.
Come sempre si punta il dito contro la burocrazia, che in verità ancora una volta si limita ad applicare norme che nascono dalla politica. I percorsi decisionali farraginosi, la parcellizzazione delle responsabilità, il diffuso diritto di veto di cui fanno uso le decine di Istituzioni (e rappresentanze anche non istituzionali) intermedie hanno storicamente impedito di provvedere a iniziative di prevenzione e controllo che sarebbero state in grado di attutire gli effetti calamitosi.
L’Italia non può illudersi di prescindere dalle calamità naturali, sarebbe come pensare di vivere senza I terremoti in aree sisimiche. Ma dobbiamo convivere al meglio con questi rischi. Con opere straordinarie e con ordinarie manutenzioni. Se nel secondo caso – la mancata manutenzione – è un’evidente e colpevole sciatteria delle amministrazioni, quasi sempre di quelle locali, nel primo caso (quando si parla di opere e infrastrutture straordinarie) sarebbero proprio le amministrazioni locali a dover essere sollevate da responsabilità. Non può essere competenza del singolo territorio gestire la mappa del rischio idrogeologico che prevede quasi sempre delle complesse interconnessioni territoriali e di specializzazione.
Si tratta di uno di quei numerosi casi in cui l’ideologia dell’autonomia locale si scontra con la forza della realtà: la parcellizzazione dei progetti ha finito per escludere persino la necessità di una “cabina di regia” centrale che sapesse e potesse coordinare I diversi soggetti presenti sul territorio. Che sia una rediviva struttura “Italia Sicura” di renziana memoria, o che sia un nuovo soggetto commissariale, resta il fatto che di fronte alle catastrofi il Paese deve organizzarsi centralmente, a difesa dei territori e di chi li abita.
Fonte: Libero Economia